Italia stretta fra il Mes e il Patto di stabilità

ECONOMIA. Si dice che il 14 dicembre il prossimo Ecofin arriverà all’accordo sul nuovo Patto di stabilità. La lunga notte brussellese non è stata sufficiente a trovare un compromesso soddisfacente per il «fronte Nord» e il «fronte Sud».

Il primo rappresenta quei Paesi che spingono per tornare ad una stagione dell’austerità (la Germania del liberale Lindner in testa insieme ai soliti olandesi, finlandesi, austriaci, ecc.) e il secondo quelli che insistono per garantire margini agli investimenti che aiutino l’economia europea a riprendersi dalle troppe crisi che la stanno fiaccando (e sono gli italiani ma anche i francesi, gli spagnoli, i portoghesi, ecc.). Il ministro Giorgetti al termine della sessione non è apparso certo soddisfatto ma nemmeno pessimista, e anche ironico: «Hanno capito che c’è una guerra…» si è lasciato andare. E in effetti la richiesta dell’Italia è che non si conteggino, nella determinazione del tetto del deficit, gli investimenti fatti per la difesa, la transizione ecologica e l’innovazione digitale.

Dalla presidenza spagnola ieri sera filtrava che ci sarebbe un testo concordato fra i tre Paesi più grandi dell’Ue, e dunque le speranze non sono certo finite anche se lo stesso Giorgetti ha più volte detto che, paradossalmente, piuttosto che un accordo cattivo sarebbe meglio tornar al vecchio Patto pre Covid, quello che tanti problemi creò a suo tempo. Ma l’Italia, nella trattativa così serrata tanto che il nostro ministro del Tesoro ha velatamente minacciato il veto («Non accetteremo regole che non possiamo rispettare»), sembra secondo alcuni indebolita dall’inesauribile questione del Mes. Il Fondo salva Stati, per quanto firmato a suo tempo anche dal governo di Roma, non è stato ancora ratificato dal nostro Parlamento e questo ne impedisce la piena applicabilità in quanto siamo l’unico Stato dell’Unione a non aver compiuto un atto dai più dato per scontato. La questione del Mes è da tempo una di quelle faglie politiche che dividono in due la politica italiana: esso è duramente contrastato non soltanto dal centrodestra, soprattutto dalla Lega (ma anche dalla Meloni in versione opposizione), ma anche dal M5S, e quindi da parte dell’opposizione. Il Fondo è stato dipinto, anche nella sua nuova versione, come una spada di Damocle sulla testa degli Stati e dunque perciostesso inaccettabile. Finora però Meloni e Giorgetti hanno pensato di usare l’arma della ratifica per ottenere dai partner un accordo più vantaggioso proprio sul Patto di stabilità, una logica «a pacchetto» rifiutata da tutti gli altri partner e dalla Commissione che ha sempre detto: «Sono due questioni separate», e questa posizione non si è mai ammorbidita mentre la pressione su Palazzo Chigi si è fatta via via più forte.

Se volevamo far leva sul Mes per lo «sconto» su deficit e debito, l’arma appare ormai spuntata, al punto che secondo alcuni osservatori essa, nella complessa alchimia degli accordi di Bruxelles, costituirebbe una debolezza per il nostro Paese. Per esempio così è stata letta la «sconfitta» dell’Italia che aveva candidato l’ex ministro dell’Economia del governo Draghi, Daniele Franco, a presidente della Banca europea degli investimenti, carica che invece è andata alla ministra spagnola del Tesoro. Forse è anche per questa ragione che il ministro degli Esteri Tajani nelle ultime 24 ore ha cambiato la sua posizione sul Mes («Non è una priorità») in un sì alla ratifica, ancorché ancora condizionato. Probabilmente nella sua posizione di esponente del Ppe Tajani avverte che allungare ancora i tempi per noi è un fattore di svantaggio. Peccato che dalla Lega si sia subito alzato un altolà all’aperturismo del ministro, questo rischia di essere un ulteriore fattore di divisione all’interno della maggioranza nella lunghissima campagna elettorale per il voto europeo di giugno.

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