La Bielorussia
non ha più paura

Non sempre la violenza, la prepotenza e la sopraffazione vincono. Questa è la lezione che sta dando al mondo il popolo bielorusso, indignato per i brogli alle presidenziali di domenica 9 agosto e per i successivi terribili scontri per le strade tra forze anti sommossa pro-Lukashenko ed oppositori. Minsk, Grodno, Brest sono città accomunate dalla volontà di usare metodi pacifici per risolvere un’incredibile crisi causata dall’ostinarsi nel non riconoscere che i tempi cambiano e che, quando viene il momento di passare la mano o andare in pensione, bisogna avere il coraggio di farlo. Nessuno è insostituibile, questa la lezione.

Nemmeno i capi di Stato o i politici di prima grandezza lo sono. In Bielorussia si è arrivati a dei livelli di sfacciataggine da record: gli osservatori della candidata dell’opposizione, Svetlana Tikhanovskaja, sono stati allontanati dai seggi; non hanno potuto presenziare allo spoglio; in certi casi non sono stati resi noti nemmeno i risultati nei singoli seggi. Come in un copione già scritto, la Commissione elettorale ha assegnato - quasi di default - al presidente uscente l’80% delle preferenze, alla «casalinga» il 10%. Si prenda atto, quindi, che tutte le rilevazioni precedenti alla consultazione erano sbagliate. La gente «è stata imbrogliata dai social media e ne è succube», ha spiegato il 65enne Aleksandr Lukashenko.

Il dubbio si potrebbe, allora, sciogliere ricontando le schede elettorali, che - per legge - per 6 mesi devono essere custodite. Peccato, nessuno sa più dove esse siano finite, ma probabilmente sono state già bruciate da qualche solerte funzionario. Domenica 9 e lunedì 10 sono stati contraddistinti da una violenza inaudita contro i dimostranti: 2 morti e 7 mila arresti. Le fotografie degli oppositori pieni di lividi ed ematomi hanno indignato l’opinione pubblica nazionale. «Non abbiamo più paura», la gente ha iniziato a urlare in faccia a Lukashenko (che forse pensa di essere ancora nel 2005 e 2010, quando represse con la forza il dissenso), mentre ovunque iniziavano gli scioperi.

Persino giornalisti ed impiegati della televisione di Stato - una delle basi del potere del 5 volte presidente - hanno incrociato le braccia. Il primo canale, che di solito si dilunga sui successi dei raccolti nei campi agricoli o della produzione industriale, ha mostrato a lungo l’immagine di un divano di colore beige in uno studio vuoto. La slavina si è così staccata dalla montagna ed ora sarà difficile fermarla. Centinaia di migliaia di persone hanno riempito pacificamente le piazze, chiedendo il cambiamento. Il problema è che, ora, il vuoto di potere a Minsk potrebbe provocare sgradite sorprese. La probabile vincitrice delle presidenziali, Svetlana Tikhanosvkaja (le si attribuisce il 60-65% dei voti) è stata costretta a riparare all’estero. Fin dalla campagna elettorale si è offerta di essere una traghettatrice verso libere presidenziali entro 6 mesi.

Lukashenko, disperato ed isolato, cerca di guadagnare tempo, proponendo la riforma costituzionale. Nei 26 anni di sua presidenza sono state redatte ben tre leggi fondamentali ed il risultato è stato che il suo potere è aumentato a dismisura e sono spariti gli equilibri tra istituzioni.

Quindi, cosa fare? Nessuno lo sa. In queste situazioni il rischio dell’apparizione di un «uomo forte» è altissimo come quello dell’intervento militare esterno. Ci si augura di non rivedere a Minsk la versione aggiornata di Budapest ’56 o Praga ’68. La speranza è invece che finisca come a Belgrado nel 2000: folla festante, democrazia, autocrate in fuga.

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