La crisi energetica e il ruolo dello Stato

La ricerca precipitosa di nuovi fornitori di gas e petrolio per emanciparsi dalla dipendenza russa da una parte, le centrali a carbone spinte al massimo in tutta l’Unione europea per supplire alle carenze di idrocarburi dall’altra: sembrano passati anni luce da quando la cancelliera tedesca Angela Merkel, nel 2020, dichiarava al World Economic Forum di Davos che «l’Europa intende diventare il primo continente senza emissioni di CO2».

Piuttosto l’attuale situazione europea ricorda molto da vicino quella di fine Ottocento, quando Russia e Stati Uniti avevano petrolio in abbondanza nei propri confini mentre il Kaiser tedesco Guglielmo II doveva corteggiare (o aggirare) gli Ottomani per ottenere permessi di esplorazione in Mesopotamia alla ricerca disperata di greggio. Corsi e ricorsi storici che chiariscono la forza dello sconvolgimento energetico che investe l’Unione europea alla vigilia dell’ennesimo vertice brussellese di oggi. Dal tetto al prezzo del gas alla riforma del mercato elettrico, passando per gli acquisti comuni di idrocarburi, è poco plausibile che nelle prossime ore i leader europei possano accordarsi su una soluzione che risolva la crisi in modo rapido e indolore. Sarebbe più realistico avviare una riflessione tempestiva sul nuovo ruolo che in Occidente lo Stato sta esercitando, e sempre più dovrà esercitare, in campo energetico.

In primo luogo, da settimane, assistiamo a un ritorno di interventi di stampo apertamente assistenzialistico per attutire i rincari delle bollette di luce e gas. Non tutti i Paesi, tuttavia, sono nella condizione di usare con la stessa decisione la leva del bilancio pubblico: ieri la Germania ha annunciato un nuovo pacchetto di aiuti a famiglie e imprese da 200 miliardi di euro, dopo aver già nazionalizzato il colosso del gas Uniper; esborsi record che Berlino si può permettere dall’alto della propria forza economica e del proprio basso indebitamento pubblico. Finanze pubbliche in ordine, oggi più che mai, funzionano dunque come un’assicurazione in tempi di crisi. In secondo luogo, gli Stati europei dovranno sempre più considerare la ricerca di fornitori energetici affidabili come compito precipuo della propria politica estera e come argomento di riflessione strategica di medio-lungo termine. Il Governo Draghi, nella ricerca di alternative agli idrocarburi russi, ha potuto già fare molto – si pensi alle recenti missioni dell’esecutivo in Algeria, Angola, Azerbaigian, Congo e Mozambico solo per nominare alcuni Paesi – anche grazie al dinamismo di Eni e di Snam, aziende partecipate che vanno rafforzate oltre che preservate. Su questo fronte, come dimostrano da ultimo gli atti di sabotaggio dei gasdotti Nord Stream, occorrerà inoltre mettere in conto uno sforzo finanziario e militare maggiore a tutela della sicurezza delle infrastrutture critiche.

Infine sarà necessario rivedere l’atteggiamento dello Stato quale tutore e garante delle condizioni per gli investimenti privati nel comparto energetico. Dal settore pubblico dovranno arrivare sempre più sostegno alla ricerca ad ampio spettro in questo campo e sempre maggiore certezza delle regole per gli investitori, invece di lungaggini burocratiche e stop di natura ideologica che frenano impianti di rinnovabili o nucleare civile. Non si tratta, in definitiva, di resuscitare semplicemente vecchi tic statalisti.

Anche l’Unione europea, se non vorrà essere relegata a un ruolo residuale, farà bene a tenerne conto, promuovendo un approccio coordinato delle politiche pubbliche energetiche nel Vecchio Continente per non incentivare fughe in avanti e frammentazioni, per non «dividerci a seconda dello spazio nei nostri bilanci nazionali» come ha detto ieri Mario Draghi, finendo gli uni contro gli altri, tutti indeboliti sullo scacchiere mondiale.

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