La crisi grillina
non si ferma

Il cosiddetto «caso Fioramonti», le dimissioni del grillino ministro dell’Istruzione dal governo e sicuramente anche dal movimento, dimostra ancora una volta che la crisi pentastellata viaggia a velocità costante. Non si ferma, semmai accelera. Lorenzo Fioramonti, esponente dell’ala sinistro/ambientalista del M5S, saluta e se ne va: formalmente si dimette per una questione di fondi alla scuola («pochi») ma, accompagnato dai consueti veleni grillini sui rimborsi, è pronto a formare un partitino cui potrebbero aderire almeno a quindicina di deputati (Silvestri Vallascas, De Toma, Mariani, Rossini, Giuliodori, Lattanzio, Aprile, Cataldi, ecc.) pronti a fare bye bye a Di Maio.

Questo singulto a sinistra corrisponde esattamente ad uno spasmo a destra: l’ex leghista e conduttore televisivo Gianluigi Paragone ha già votato contro la fiducia al governo ed è ad un passo dal trasmigrare nella Lega come hanno fatto tre senatori, avanguardia, pare, di un drappello di altri trenta.

Solo una cosa accomuna i destri ai sinistri: non ne possono più né delle imposizioni di Casaleggio né dell’inconcludenza di Di Maio. Non vogliono pagare la «quota» mensile a favore della società privata che detiene il vero potere interno ma soprattutto contestano che la medesima guidi la linea politica fino al conflitto di interessi – come si è visto nel piano per l’innovazione digitale scritto a quattro mani da Casaleggio e dalla ministra «competente».

E poi i contestatori sono contro Di Maio, contro la sua palese debolezza politica (per non dire culturale) che si accompagna all’essersi circondato da una corte di famigli che comunicano col movimento solo con i post su Facebook: «Nessuno ci ascolta mai», si lamentano i malpancisti di ogni tendenza. Non sarà un caso che l’attacco più duro a Fioramonti e a Paragone sia venuto in queste ore dal viceministro Buffagni che di quella corte è l’uomo dei conti e delle nomine.

Certo ha contribuito a questa crisi il disinvolto passaggio da un’alleanza con la destra ad una con la sinistra, che a molti non è piaciuto, ma di sicuro il dramma si è ingigantito man mano che il movimento ha perso consenso come fosse acqua che scorre: prima un forellino nella diga del 32 per cento raccolto trionfalmente alle politiche del 2018 (con punte del 60 al Sud), poi un fiotto alle regionali, infine un fiume alle europee della scorsa primavera. I voti di oggi sono la metà di due anni fa, oscillano pericolosamente sotto il 15 per cento, e il disastro elettorale tocca personalmente ogni deputato e ogni senatore che sa di avere una possibilità su due di rimanere a terra, senza un seggio alla Camera o al Senato, senza stipendio, anzi senza niente per molti di loro che prima di diventare onorevoli non avevano né un lavoro né un reddito.

Insomma, il panico porta a fuggire, chi da una parte e chi dall’altra. Del resto, cosa davvero li unisce? L’«ideologia» scolpita da Grillo sul Sacro Blog, sintetizzata dal celebre «Vaffa», ha funzionato quando era «contro» la cosiddetta Casta, ma si sbriciola quando si deve governare: lo si è visto nel disastro degli enti locali, a cominciare dalla Capitale di Virginia Raggi, e in tutti i principali dossier della politica nazionale. I dettami grillini dell’epoca d’oro sono stati smentiti sulle grandi opere, sulla Tav, sull’Ilva, sui vaccini, persino sulla politica estera che ha oscillato pericolosamente tra Maduro e Trump, tra i gilet gialli e il voto alla Von der Leyen. Insomma, una confusione così (insieme alla incompetenza) può reggere fin quando c’è il collante del potere. Quando si è pensato di chiamare in soccorso l’eterno contendente di Di Maio, Alessandro di Battista, per frenare l’emorragia di voti, il risultato è stato un disastro, tant’è che Dibba è stato velocemente rispedito ai suoi viaggi in terre lontane. Neanche lui ha più il tocco magico.

Insomma, i grillini vedono il fantasma dello squagliamento. Proprio come successe al movimento dell’Uomo Qualunque di Gugliemo Giannini negli anni ’50 che sparì dopo un grande successo elettorale. Però ai grillini è andata meglio che ai «qualunquisti»: l’Italia di allora non permise mai a Giannini di diventare ministro

© RIPRODUZIONE RISERVATA