La decisione di Macron e i rischi del metodo

Esteri. Scioperi, manifestazioni, proteste, cortei, blocchi stradali, incendi, devastazioni. Parigi, Marsiglia, Rennes, Lione, Nantes: da Nord a Sud la Francia brucia contro la riforma di Macron che porta l’età pensionabile da 62 a 64 anni.

Il suo discorso in Tv ha radicalizzato gli animi di chi lo difende senza condizioni e di chi lo odia. Lo abbiamo già visto con i gilets jaumes e prima ancora con innumerevoli jacqueries. Nei francesi scorre ancora il sangue della Rivoluzione del 1789 e della Comune del 1870, una mai sopita attitudine ribelle innata, un germe che può esplodere in atti di violenza. Se i francesi nelle città e nelle campagne ricordano i sanculotti del ’700 Macron pare ricalcare il ruolo di Napoleone III, il presidente divenuto imperatore con un colpo di Stato. La storia si ripete, le due anime di un Paese inquieto si affrontano da settimane e nessuna delle due sembra arrendersi. Nel suo discorso alla Nazione l’ex banchiere Rotschild che ha conquistato l’Eliseo non è arretrato di fronte alla mobilitazione.

All’Assemblea nazionale, dove i contrari alla riforma sono maggioranza, i deputati interrompono la sessione e cantano la Marsigliese per protestare l’aggiramento compiuto dal presidente attraverso l’articolo 49.3 della Costituzione, incurante delle proteste, e della maggioranza contraria nei sondaggi e in Parlamento. È uno di quei casi in cui i leader di una democrazia vanno contro il loro popolo, senza rimanere intimoriti dalla perdita di consenso, forti solo del mandato ricevuto. Macron in Tv ha spiegato le sue ragioni: la sostenibilità dei conti pubblici, il futuro da affidare alle nuove generazioni, i cambiamenti del lavoro e dell’aspettativa di vita. «Lunare, arrogante, bugiardo, irresponsabile», lo ha definito la capogruppo della sinistra radicale Mathilde Panot. I cartelli ricordano che metà dei sessantenni è già fuori dal lavoro e un quarto risulta inabile a qualunque mestiere.

Dunque è quel quarto di Francia, spalleggiato da buona parte degli inoccupabili e dei pensionati che solidarizzano, a protestare come nel romanzo di Michel Houellebecq «Serotonina». A nulla è valso da parte di Macron l’aver diminuito la disoccupazione dal 9,4 al 7,2% e promettere di colpire fiscalmente con una patrimoniale i grandi gruppi finanziari (da cui proviene) per placare gli animi e distorcere l’attenzione, cercando una sorta di capro espiatorio. Ieri sono scesi in piazza due milioni di francesi. La canicule sociale, come l’ha definita Le Figaro, continua e pare inarrestabile.

Quello che sta avvenendo in Francia ci riguarda non solo per la vicinanza dei vicini d’Oltralpe. Ci porta a riflettere sui limiti di un decisionismo necessario per salvaguardare l’interesse del Paese oltre i populismi, ma anche su un sistema – quello francese – che attribuisce ampli poteri a un uomo solo, il presidente della Repubblica, di fatto capo dello Stato e premier insieme (Macron in base alla Costituzione partecipa infatti alle sedute del Consiglio dei ministri e oscura la premier Elisabeth Borne). Un presidente che sovrasta, dopo la riforma della Quinta Repubblica di De Gaulle degli anni ’50, il Parlamento. Che succederebbe in Italia se venisse applicato un sistema istituzionale simile, quello a torto definito «semipresidenziale» (in realtà è super-presidenziale) spesso evocato a sproposito come una panacea senza conoscerne i contenuti? Che le democrazie occidentali siano malate e deboli, inadatte a gestire le complessità della globalizzazione e che i cittadini spesso non siano in grado di concorrere responsabilmente al bene comune e al futuro dei propri figli, è un dato di fatto.

Ma che possano scivolare pericolosamente verso l’autocrazia è un pericolo reale. L’unica via d’uscita resta la mediazione. Finora Macron non pare intenzionato a praticarla.

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