La guerra in Parlamento e la corsa
al centro degli alleati Conte e Renzi

Non s’è mai visto un Parlamento che scateni una guerra di tutti contro tutti. Di regola in democrazia, se uno scontro si sviluppa, è tra maggioranza e opposizione. I partiti, così come le coalizioni, conoscono sì divisioni al proprio interno, ma in genere solo finché c’è bonaccia. Non appena si alzano venti di guerra, il senso di sopravvivenza li spinge a serrare le fila per meglio reggere lo scontro. Non è propriamente quello cui si assiste in queste settimane. Già in avvio di legislatura circolava una brutta aria di diffidenza generale.

Persino i due promessi partner di governo si vollero reciprocamente garantire dalle temute slealtà con la firma di un contratto, così come si fa quando si deve regolare un contrasto di interessi. Con la formazione del Conte bis la situazione è poi precipitata. Le professioni di lealtà si sprecano ma hanno tutte un po’ il sapore della famosa rassicurazione offerta da Renzi a Letta («stai sereno») quando stava già ordendo lo sfratto del malcapitato compagno di partito da Palazzo Chigi.

Che sia guerra aperta tra Conte e Salvini non sorprende. È normale in democrazia. Sorprende invece che ci sia belligeranza tra il premier e l’alleato Renzi. Non è il solo caso di ostilità interno alla maggioranza. Sono un po’ tutti «fratelli coltelli». Apparentemente l’allarme non investe l’opposizione. Al momento sia la leadership di Salvini che il primato della Lega nel centrodestra non sono in discussione. Non per questo sono al sicuro. Tutto dipende dalla capacità che Salvini avrà di togliersi dalle secche in cui s’è cacciato perdendo la sfida delle elezioni anticipate. Vale in politica quel che vale nel calcio. Mister che vince non si cambia, ma mister che perde deve temere il licenziamento in tronco senza tanti complimenti.

Il vero campo di battaglia è però nella maggioranza. Non c’è un partito che non sia in armi. Conte vive Renzi come il suo sicario annunciato. Non vuol sentir parlare di chi si crede «un fenomeno». Da parte sua l’ex premier continua ad emettere veti sull’azione di governo perfidamente sotto forma di «consigli». Si annuncia insomma una guerra, meglio una guerriglia, senza esclusione di colpi. Anche i servizi segreti sono stati reclutati. Non è questa comunque l’unica minaccia da cui deve guardarsi Conte. Di Maio a parole si spertica nelle lodi nei suoi confronti, nei fatti fa di tutto per arginare l’invadente presenza dell’ambizioso rivale. Sa che ogni successo incassato dal capo del governo è un colpo di piccone al suo ruolo di capo del Movimento. Non può star tranquillo nemmeno Zingaretti. Il segretario del Pd si sente addirittura accerchiato. Da qualsiasi parte volga lo sguardo vede nemici o, quanto meno, temibili competitori. All’esterno rischia di finire schiacciato dalla tenaglia Lega-M5S. All’interno deve fronteggiare le insidie dei capi corrente, sgomitanti per guadagnare posizioni al vertice del partito.

Di tutti i conflitti in atto il più cruento - e anche il più carico di conseguenze politiche generali - rischia di essere quello tra Conte e Renzi. Puntano entrambi a occupare lo stesso spazio: il centro. Ambiscono parimenti alla guida del governo. Sono tutti e due condannati a vincere: nessuno di loro può permettersi il lusso di perdere. La sconfitta sarebbe per entrambi letale. Lo scontro finale può essere sulla legge elettorale: Conte a caldeggiare, Renzi a combattere il maggioritario. Per il leader di Italia viva l’abbandono del proporzionale segnerebbe il ritorno al bipolarismo destra/sinistra che non accetta comprimari. Per il Pd e il M5S darebbe invece il via libera a un loro accorpamento (fusione?), con un sicuro padrino dell’unione: l’ex avvocato del popolo, a questo punto alla testa di un governo Conte ter.

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