La Lega di Salvini, i conti non tornano

ITALIA. La Lega di lotta e di governo, il partito più longevo che ha attraversato in modo rumoroso Prima e Seconda Repubblica, ha festeggiato i suoi primi 40 anni in una condizione di stallo febbrile.

C’è un’aria di sospensione, aspettando ciò che può succedere dopo le elezioni europee. Il partito che Salvini guida da undici anni potrebbe diventare il socio di minoranza del destra-centro, sorpassato da FI, già dedita alla campagna acquisti nel dissenso lumbard. Che incidenza può avere lo schiaffo di Bossi, mai così duro e così esplicito contro l’attuale leader per aver snaturato la ragione sociale della Lega (nordismo e affini) inseguendo l’estrema destra europea e un progetto nazional-nazionalista? La formazione cresciuta con le controverse parole della questione settentrionale e delle partite Iva del capitalismo molecolare, e che oggi ha nell’orizzonte del suo condottiero il Ponte sullo Stretto di Messina, è gelosa della propria intimità: non ama lasciarsi guardare dentro da occhi indiscreti.

Procede con schemi mentali tutti suoi. La bonifica con le ramazze, andata in scena nel 2012 a Bergamo, con la gestione Bossi sotto accusa e ridotta al 4%, si risolse con un pugno di ferro in guanto di velluto attraverso la breve transizione pragmatica di Maroni. Il fondatore collocato ai margini, ma rispettato. In una «piccola patria» in cui i sentimenti contano, Bossi ha messo il timbro a un disagio diffuso che serpeggia da tempo, giocando sulla mozione degli affetti e della nostalgia. Lo sguardo all’indietro presenta un tratto suggestivo e consolatorio, ma in un mondo che cambia troppo in fretta può risultare disconnesso dalla realtà. Salvini ha risposto con il miele e ieri alla festa della Lega a Varese s’è tolto qualche sassolino, ma niente di più. Il prudente Giorgetti («uno bravo» ha ricordato il senatùr) s’è allineato. Non pervenuti, fino a ieri, Zaia e Fedriga. Il leader è costretto a misurare la delicatezza del momento e la posta in gioco che riguarda il suo futuro: una leadership contendibile o comunque sotto tutela?

Pur controllando i vertici del partito e in vista del congresso federale in autunno, Salvini sta valutando l’ampiezza della fronda e i costi-benefici fra l’accettare la sfida o ricomporla. Non sembra comunque indietreggiare, salvo l’abbozzo di un allontanamento dall’ultradestra tedesca e il sostegno all’autonomia regionale differenziata: la bandiera della prima ora, che difficilmente sarà votata prima delle Europee, e che in ogni caso atterra su un Nord manufatturiero e aperto al mondo, un altro universo rispetto agli anni ’90. Il problema di Salvini si chiama Meloni. Non ha visto arrivare l’«effetto Giorgia» e, a differenza della premier, non ha colto il punto di svolta: il populismo non ha né cultura né i numeri per ribaltare l’ordine vigente ed è obbligato a scendere a patti con i meccanismi istituzionali.

Se Bossi, poi, poteva contare sull’amico Berlusconi, federatore comprensivo, Salvini ha pochi spazi di manovra con Meloni che disciplina la coalizione nel segno della gerarchia e della competizione senza sconti. A questo si aggiungono gli errori fatali dal Papeete in poi, periodo in cui è riuscito a trasformare quella che era parsa – nella prima fase dell’offensiva populista – una cavalcata vittoriosa in un azzardo rovinoso, dilapidando il patrimonio dei consensi: la prima accelerata alle Politiche del 2018, il 34% alle Europee dell’anno dopo e ora il rischio di scendere in fondo fra i partner della maggioranza, con un terzo o un quarto dei voti raccolti 5 anni fa. Gli elementi per un esame di coscienza ci sono tutti: in attesa del 9 giugno, i conti non tornano.

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