La lezione della Brexit:
fuori dall’Ue è peggio

Oggi dovrebbe essere l’ultimo giorno per chiudere la partita Brexit. Ma il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas si è già portato avanti: «I colloqui non devono fallire solo perché è necessario qualche giorno in più». Tradotto: non ci impiccheremo ad una data. E si capisce visto che i due Paesi con i quali la Germania vanta i maggiori surplus di esportazione sono Stati Uniti e Gran Bretagna. Su 224 miliardi di euro di attivi fra import e export nel 2019, 47,3 miliardi vengono dagli Stati Uniti e 40,8 miliardi dal Regno Unito. Con l’America di Trump gli spazi per le esportazioni tedesche si sono ridotti e adesso con la Brexit il conto per Berlino peggiora.

Sono circa 460 mila posti di lavoro che, secondo i calcoli del centro di ricerca governativo Iwh di Halle, andrebbero persi. Mentre il presidente Macron è per la linea dura nella capitale tedesca, dove le ragioni di principio valgono ma mai staccate dall’economia, da sempre sono per una linea morbida con il governo britannico. La Francia nell’interscambio con la Gran Bretagna è a quota 12 %, esattamente la metà della Germania mentre l’Italia è al 7%. Insomma il primo a perderci per il mancato accordo commerciale con la Gran Bretagna di Boris Johnson è proprio l’economia tedesca. Ciò che oggi andrebbe siglato è un compromesso che impegni la Gran Bretagna a non fare concorrenza sleale all’Unione Europea, a permettere l’accesso ai pescatori europei su alcune parti di mare a sua sovranità e a definire un meccanismo comune di risoluzione delle controversie.

Come scrive Thomas Moore su «The Telegraph» il «no deal», cioè il mancato accordo, «non è inevitabile ma sta diventando per noi britannici la nostra migliore opzione». Qual è dunque il senso di Brexit se non poter disporre della propria volontà di fare e disfare in casa propria? Uno degli errori del precedente inquilino di Downing Street, il primo ministro Theresa May, è stato proprio questo: credere di vendere alla propria opinione pubblica un accordo con Bruxelles come una vittoria della riacquisita libertà economica britannica. Non era così perché un’economia e soprattutto una finanza britannica vincolata alle regole del mercato comune europeo perde in slancio e si trova a combattere con le difficoltà di prima senza poter trarre, causa Brexit, i vantaggi dell’appartenenza all’Ue. Un equivoco dal quale l’elettorato britannico ha liberato il governo di Sua Maestà con le elezioni di un anno fa.

La maggioranza dei conservatori di Boris Johnson alla Camera dei Comuni è consolidata da 80 seggi in più. Sono molti a pensare con Lord Mendelson, già membro del governo laburista di Tony Blair, che costruire è meglio che recriminare. In questi ultimi quattro anni ci si è arrabattati a cercare di ribaltare il risultato del referendum del 2016 invece di impegnarsi per ottenere una forma di Brexit meno dannosa possibile. Il pragmatismo che ha segnato la storia britannica scade ora a lamento. Ed è il segno dei tempi al quale non si sottrae anche l’isola che ha fatto della splendid isolation la connotazione nazionale. Quando il primo ministro Palmerstone ebbe a dire che l’Inghilterra non ha alleati eterni intendeva quello che un secolo dopo sentenziò Henry Kissinger: le nazioni non hanno nemici e amici permanenti solo interessi. E gli interessi dei 27 Stati della Ue li ha esaltati l’orgoglio britannico. La Brexit avrebbe dovuto aprire ad una emorragia, Grexit, Italexit, e poi l’ Ungheria di Orban e la Polonia di Kaszynski e invece tiene. Niente di eroico. La Germania deve concedere se vuole compensare le quote export che perde. L’Ue è il campo da gioco e primi e ultimi della classe sono uniti da una certezza: fuori sarebbe peggio.

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