La libertà soffocata
nel tir dell’orrore

Possiamo immaginarcela anche noi l’agonia di Pham Thi Tra My, 26enne ragazza vietnamita schiacciata come una bestia insieme ad altri 38 uomini e donne - anch’essi pigiati come bestie - dentro il container di un Tir senz’aria e senza luce che ha fatto decine di migliaia di chilometri, per giorni, diretto in Gran Bretagna. Se ci serve una definizione di cos’è l’orrore allora pensiamo al mercante di uomini che li ha fatti entrare dentro quel container, facendoli salire a uno a uno come polli in batteria e poi ha chiuso il portellone lasciando dentro per ore e ore interminabili quell’umanità di disperati accomunati da un unico destino: il caldo, il gelo, la sete, il sudore, i gemiti, i lamenti, le urla, i pugni sulle pareti, le lacrime, il respiro che viene a mancare, la morte – lenta e inesorabile – per asfissia, come quando l’acqua ti sale alla gola.

Dentro quel carro bestiame la ragazza a un certo punto ha avuto la consapevolezza della fine della sua vita, ha preso il cellulare e ha mandato un messaggio ai suoi genitori e al mondo intero, un messaggio a futura memoria: «Mi dispiace mamma. Il mio viaggio all’estero non è andato bene. Ti amo così tanto! Sto morendo perché non posso respirare».

Quegli ultimi, disperati, messaggi – quelle parole così tenere, così struggenti e strazianti, quasi a non voler turbare troppo la madre in ansia - sono stati diffusi dalla sua famiglia. L’ultima volta che l’ha sentita la sorella, Pham Thi le aveva detto che stava entrando in un container e che spegneva il telefono per evitare di essere localizzata. Da allora non ha avuto più sue notizie. La ragazza aveva avvertito la famiglia di non contattarla perché «gli organizzatori», ovvero i suoi carnefici, non le permettevano di ricevere chiamate. Quale strazio maggiore può esserci per una madre che riceve tali messaggi? «Sto morendo, non riesco a respirare. Vi amo moltissimo mamma e papà. Mi dispiace, mamma».

L’immagine di quella giovane figlia che trasmette quel disperato testamento a mamma e papà rimanda all’ultima terribile strage di madri e bambini che tentavano di raggiungere Lampedusa, annegati a poche miglia dall’isola dei loro sogni, a quella madre abbracciata al suo bimbo nato da pochi giorni, in un disperato tentativo di proteggerlo. Entrambi vittime di quella Croce, la Croce dei migranti. Chissà se prima o poi questa montagna di morti trasmetterà un fremito di pietà e indignazione in quest’Europa cinica e indifferente a una tragedia che si consuma non solo sul mare, come abbiamo potuto constatare. Dietro l’immagine sacra di quella madre col bambino annegata tra i flutti, dietro «la ragazza del container» – che è figlia nostra – soffocata come un animale – ci sono migliaia di altre mamme, bambini, uomini, vecchi che in questi anni sono andati ad affollare il cimitero più affollato del mondo, il cimitero del Mediterraneo, il cimitero del cinismo delle occasioni perdute per recuperare la nostra «pietas» di uomini e donne, di cittadini europei.

Per una volta, di fronte a quella figlia nostra soffocata come un animale, di fronte al susseguirsi angosciante di migranti che perdono la vita alla ricerca di un sogno, noi che siamo un popolo di emigranti – e continuiamo ad esserlo - mettiamo da parte le polemiche politiche e pensiamo, condividiamo, con un peso sul cuore, quelle soluzioni alla tragedia dei clandestini e dei rifugiati che pure esistono, come i corridoi umanitari, l’arrivo sicuro e controllato di chi fugge dalla fame, dalla sete, dalle violenze, dalla schiavitù, dalle torture e dalla guerra. Sarò il nostro modo di rendere memoria a quei morti, a quella ragazza spezzata nel fiore degli anni dalle bestie feroci che l’hanno fatta salire dentro uno di quei container dell’orrore. Quei container che probabilmente mentre scriviamo stanno viaggiando nelle strade d’Europa e dove ogni tanto la morte allestisce la sua maledetta faccenda.

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