La lotta alla fame passa anche per la pace

IL COMMENTO. Tre cifre: 43, 780 e 122. E tre parole: clima, nutrizione e guerra. Sono queste le condizioni e le avversità con cui si confronta il summit Fao (l’Organizzazione per il cibo e l’agricoltura delle Nazioni Unite) aperto lunedì scorso a Roma e destinato a portare in Italia i rappresentanti di 161 Paesi, tra i quali 22 capi di Stato o di Governo, e il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres.

Un onore per l’Italia (e un esplicito riconoscimento del nostro ruolo nei temi legati all’alimentazione e alla produzione di cibo) e forse una tappa decisiva per una presa di coscienza che non può restare legata a logiche nazionali o, peggio ancora, di settore. Indispensabile, peraltro, se si vuole davvero raggiungere l’obiettivo «Fame zero» entro il 2030, cioè rispettare i propositi di questo summit romano.

Le cifre, dicevamo: 43 sono i milioni di persone che ogni giorno rischiano di morire di fame, 780 i milioni di persone che soffrono per scarsità di cibo, 122 i milioni di affamati in più rispetto al 2019. I dati dimostrano che la situazione è andata peggiorando.

E le parole. Il clima: le emissioni a effetto serra, che provocano il surriscaldamento dell’atmosfera, crescono ancora e pare difficile che si riesca a evitare l’aumento della temperatura di 1,5 gradi come 196 Stati si erano impegnati a fare nel 2015 a Parigi, confermando il proposito a Glasgow nel 2021. Il riscaldamento climatico produce effetti negativi sull’agricoltura (desertificazione, scarsità di risorse idriche, spostamento dei periodi di crescita delle colture…) e quindi sulla produzione di cibo.

Nutrizione: un terzo del cibo prodotto finisce nelle pattumiere, e mentre 462 milioni di persone sono denutrite, altri due miliardi di persone sono sovrappeso quando non obese. È quanto mai urgente un radicale cambiamento delle abitudini alimentari nel mondo sviluppato. E infine le guerre: pensiamo alla polemica in corso tra Russia, Ucraina e Nazioni Unite sull’Accordo del Mar Nero (il cosiddetto Accordo sul grano), all’ipocrisia dei rifornimenti ucraini di cereali che si vogliono per i Paesi poveri ma finiscono in quelli ricchi, ai bombardamenti russi sui silos e sui granai, all’impiego di munizioni devastanti non solo per le persone ma anche per i terreni fertili. Per non parlare della guerra per l’acqua, che impegna russi e ucraini nell’attacco alle dighe e ai canali. E l’Ucraina è solo il caso più clamoroso in un panorama mondiale che mostra almeno un centinaio di conflitti in corso, che rovinano le vite dei popoli ma anche le rotte attraverso cui il cibo viene commerciato e distribuito.

È una sfida immane perché, mettendo insieme i tasselli del problema, per essere vinta implica un radicale mutamento nella politica internazionale, un profondo cambio di paradigma. Il 2030 è dopodomani e l’Ifad (il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo) ha calcolato che, per arrivare in quell’anno ad avere «Fame zero», bisogna per prima cosa stanziare 400 miliardi di dollari l’anno da investire nei sistemi alimentari globali. Si potrà farlo senza investire anche, almeno come volontà politica, sulla pace?

Senza cambiare davvero il nostro modo di alimentarsi, e quindi di essere? Senza dare una priorità reale, concreta, ai bisogni dei Paesi meno sviluppati? Non si può chiedere tutto al summit Fao. Però si può sperare che la campana di fine ricreazione suoni, almeno questa volta, alta e forte.

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