La lotta alla mafia, impegno per tutti

IL COMMENTO. Ieri mattina è stata officiata una Messa in ricordo di Carlo Alberto Dalla Chiesa, il generale e prefetto, trucidato dalla mafia – insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta, Domenico Russo – il 3 settembre 1981. Alla funzione ha partecipato, in forma privata, il Presidente della Repubblica. A margine della funzione Sergio Mattarella ha fatto diffondere una sua personale riflessione.

Dalle parole adoperate dal nostro Capo dello Stato possono evincersi alcuni elementi di non poca rilevanza. In primo luogo, l’omaggio – sentito e accorato – verso un servitore dello Stato, che aveva onorato il suo impegno istituzionale fino al sacrificio estremo della vita.

Come è noto Dalla Chiesa, generale di carriera nell’Arma dei Carabinieri, aveva accettato, senza riserva, di essere nominato Prefetto di Palermo con il dichiarato proposito di sconfiggere Cosa nostra. Egli non era nuovo ad incarichi nell’isola, essendo stato al comando della Legione carabinieri Sicilia con il grado di vice comandante generale dell’Arma. Il suo impegno fu tale che la mafia – intuendo il pericolo per essa del nuovo Prefetto – decise di eliminarlo. E così fu a poco più di quattro mesi dall’insediamento di Dalla Chiesa a Palermo. Cronaca di una morte annunciata.

In memoria di quell’uomo di Stato, mandato in trincea quasi allo sbaraglio, il Presidente Sergio Mattarella sviluppa alcune riflessioni, lodandone lo spirito di sacrificio. A ciò, il Capo dello Stato aggiunge considerazioni di ordine generale, sottolineando come sia necessario che «la lotta alla mafia impegni tutta l’Italia». In questo sforzo corale – sottolinea il Presidente della Repubblica – deve sentirsi coinvolta l’intera società italiana: le istituzioni, in primo luogo, ma non meno le strutture educative e le associazioni. Naturalmente, anche i singoli cittadini dotati di coscienza civile.

Particolare rilievo, a giudizio di Mattarella, va dato al ruolo che hanno, nel contrasto alla mafia, le pubbliche amministrazioni. Nel suo breve mandato, il generale Dalla Chiesa aveva intuito «le potenzialità dell’azione della Pubblica amministrazione per contrastare, insieme all’azione della magistratura e delle forze di polizia, le pretese criminali di controllo dei territori».

È indubbio che Dalla Chiesa contasse sulla collaborazione delle strutture dell’amministrazione pubblica (statale e locale), in particolare tra le forze di polizia e nell’ambito degli uffici giudiziari. Altrettanto fondate erano (e divennero sempre più evidenti) le diffuse ostilità con le quali il generale dovette scontrarsi proprio nel circuito istituzionale.

L’argine all’illegalità, alla corruzione e alle infiltrazioni criminali nel tessuto amministrativo ed economico – che Mattarella delinea – non fu adeguato rispetto alle promesse della politica e alle attese del Prefetto. Nell’intervista a Giorgio Bocca, a pochi giorni dal suo assassinio, il generale non mancò di esprimere la sua amarezza e il suo senso di isolamento, affermando che, quando si diventa pericolosi, si può essere uccisi se si è isolati.

Dalla Chiesa - nei «cento giorni» della sua permanenza a Palermo - aveva potuto cogliere resistenze, o vere e proprie opposizioni al suo lavoro. In primo luogo da parte della politica, dalla quale si sentiva non ascoltato. Prima di essere nominato Prefetto di Palermo aveva chiesto ed ottenuto assicurazioni sull’ampiezza di poteri in grado di permettergli di conseguire i risultati necessari che da lui si attendevano. Poteri indispensabili - a suo giudizio – per spezzare la collusione tra mafia e politica. Su tale versante restano, a quarantuno anni di distanza, ancora delle ombre.

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