La parabola di Conte da «Giuseppi» a Masaniello

ITALIA. Ammettiamolo: lo abbiamo, colpevolmente, sottovalutato, fin dalla sua prima comparsa.

Sì, una comparsa: così abbiamo giudicato quella di Giuseppe Conte, un sedicente «avvocato del popolo» che dal popolo veniva, un aspirante politico senza arte né parte venuto dal nulla. C’è apparso per questo, non un protagonista, ma appunto, un comprimario, e forse anche una controfigura del protagonista. Lo abbiamo sottovalutato, e anche un po’ colpevolmente, perché siamo rimasti prigionieri del (pre)giudizio corrente che un politico senza un doveroso apprendistato sui banchi di scuola e di lavoro, partendo dalle sezioni di partito, per passare nelle aule consiliari e finire nelle aule parlamentari non può che essere un dilettante allo sbaraglio. Abbiamo sbagliato, ammettiamolo.

Siamo stati indotti a considerarlo un premier venuto dal nulla. Lo abbiamo trattato, se vi ricordate al suo esordio da capo del governo giallo-verde (2018-2019), non da premier, ma da vice dei suoi due vice, ossia Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Loro, sì, erano i commander-in-chief, i veri comandanti di quel governo. A quel punto abbiamo assistito alla prima sorpresa. Conte, da vice dei suoi vice, s’è poi rivelato il vero commander. Ha mandato in panchina Matteo Salvini. Ha addirittura cacciato fuori dal campo di gioco Luigi Di Maio, il politico capace di una magia sconosciuta: l’abolizione della povertà.

Poi ha messo in fuorigioco anche l’altro dei Dioscuri dei Cinquestelle, Alessandro Di Battista, «Dibba», il Che Guevara «de noantri». Non contento, il miracolato della politica nazionale ha sfilato di mano al fondatore-padrone dei Cinquestelle, Beppe Grillo, la sua creatura, pensionandolo, disposto anche a gratificarlo (ma, sappiamo, nulla è gratis) con un lauto vitalizio di 300mila euro annuali. Per completare l’opera, ha provveduto anche alla rifondazione del movimento. I Cinquestelle si vantavano di essere un «non partito», ma solo un movimento.

Bene, Giuseppe Conte l’ha trasformato in un vero partito. Non solo, da forza che si poneva fuori da ogni classificazione politica (si definiva né di destra né di sinistra) l’ha resa una (sedicente) roccaforte della sinistra, lui che aveva esordito intestandosi il governo più di destra (fino ad allora) della Repubblica. Lui, che al tempo del Covid si presentava ogni sera in tivù, debitamente ornato con la sua pochette, a rassicurare gli italiani di essere in mani amorevoli, è divenuto un nuovo Masaniello. Un’operazione, questa della trasmutazione genetica da destra a sinistra, praticamente impossibile. È riuscita in passato al solo Mussolini, passato da socialista a fascista.

Cambiare idee politiche può essere anche segno di una maturità acquisita. Ma cambiarle di colpo o di continuo riesce facilmente solo a chi non ne ha o a chi se ne serve (come i populisti) per cavalcare gli umori, mutevoli e volubili, della «ggente». Ma tant’è! Se l’importante non è giocar bene ma vincere, Conte lo sa fare alla perfezione. Dopo aver vinto la sua scommessa sul partito, ci resta da vedere se riuscirà a vincere anche la sfida ingaggiata con la Schlein sul controllo dell’opposizione. Le scommesse sono aperte.

Non so voi, ma chi scrive non è così convinto che Giuseppi (come lo definì Trump in un italiano molto improvvisato) non ce la faccia anche questa volta ad averla vinta, finendo con l’inguaiare la giovane Elly. Che sia di destra o di sinistra, quando gioca all’opposizione, il populismo dispone sempre di una carta in più.

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