La premier e l’impatto con la realtà del governo

Politica interna. Considerata la data di nascita del governo, il 25 ottobre, la conferenza stampa di fine anno di Giorgia Meloni la si può considerare, come dice lei, un incontro di «inizio attività». Troppo presto per giudicare l’attività di un governo ancora in fasce nonostante che abbia alle spalle l’approvazione definitiva dell’atto politicamente più importante dell’anno, ossia la manovra di Bilancio.

La Manovra, elaborata in tutta fretta nonostante il canovaccio lasciato in eredità dai ministri di Mario Draghi, votata furiosamente tra molti capitomboli e liti di un’inesperta maggioranza (vero pericolo per se stessa, ben più di quello costituito dalle deboli e divise opposizioni), finalmente diventa legge consentendo a Meloni un sospiro di sollievo che tuttavia non nasconde la contraddizione: da capo dell’opposizione a Draghi e prima a Conte, lei si scagliò contro palazzo Chigi per gli strettissimi tempi del dibattito parlamentare; da presidente del Consiglio è costretta ad ammettere che «sì, il tempo è stato poco, speriamo di far meglio l’anno prossimo», mostrando con qualche rossore di apprezzare il fatto che il potere vero ormai è nelle mani governative e assai meno di quelle parlamentari.

Il sigillo alla manovra è contenuto in una frase tacitiana: «È politica». Una politica che vuol essere «forte e duratura» e non di passaggio come in passato quando «è stato consentito alla macchina amministrativa di prevalere», e si sente il consenso alla dura frase del ministro Crosetto che ha annunciato «l’uso del machete» verso quei funzionari che ostacoleranno il nuovo corso. Dunque la manovra è politica anche se i segnali che politicamente hanno lanciato Meloni e i suoi alleati («Di loro mi fido, governeremo per cinque anni») non sono arrivati come ci si aspettava. Sul Pos lo stop è calato dall’Europa e a Roma hanno dovuto fare marcia indietro; sul tetto al contante c’è stato un mezzo compromesso («continuiamo la lotta all’evasione, da noi nessun condono») come sulla flat tax portata a 85mila euro invece che ai promessi (da Salvini) 100mila; quanto al cuneo fiscale - segnale talmente flebile da essere quasi inavvertibile – Meloni lo definisce «costosissimo», «vedremo alla fine della legislatura cosa saremo riusciti a fare in più o in meno».

Una cosa di destra, nel senso di anti-sinistra e anti-Cgil, è sicuramente il ritorno dei voucher, a suo tempo cancellati su ordine di Maurizio Landini: «Sono meglio del lavoro nero», e avanti così. Sulla destra no-vax Meloni deve pattinare: ascolta il ministro Schillaci che la aggiorna sul rischio Covid di ritorno dalla Cina e usa prudenza, «consigliamo i vaccini a fragili e anziani, gli altri vadano dal medico, siamo contro la privazione della libertà». Vedremo presto come si comporterà se dalla Cina davvero dovesse precipitarci addosso un’altra ondata pandemica, per ora si pesano le parole e si approvano i tamponi a Malpensa e Fiumicino. Altra cosa di destra anti-grillina: il ridimensionamento del reddito di cittadinanza destinato nelle intenzioni a sparire nell’arco di un paio d’anni. «Chi può lavorare non può rifugiarsi dietro la congruità delle offerte ricevute», dice Meloni, insomma: su dal divano e pedalare. Chi proprio non può, riceverà il sussidio.

Altro tema identitario per eccellenza: il presidenzialismo, vecchio cavallo di battaglia dai tempi del Msi («partito importante dalla parte di milioni di italiani sconfitti») e vecchio spauracchio della sinistra che vi ha sempre visto il rischio autoritario. Meloni lo propone in versione francese, corretto, ma solo «per condividere la riforma il più possibile», forse in una bicamerale – parola che di per sé non induce all’ottimismo visti i precedenti. Serve stabilità, dice Meloni, e certezze della legge: «È finito il tempo in cui l’Italia chiudeva un occhio per chi viola le regole e rende la vita impossibile a chi le rispetta», il riferimento è al provvedimento anti-rave – «chiedetevi perché si fanno da noi e non in Germania e nemmeno in Francia» – ma vale un po’ per tutto secondo l’antico motto «legge e ordine» che ormai è chiaro, piace alla maggioranza dei votanti se non degli italiani. Stessa musica per le Ong: blocco navale, spiega Meloni, non significa mandare le cannoniere contro i gommoni dei disperati ma concertare un’azione comune europea per impedire che la gente sia costretta ad abbandonare la propria terra per cercare una vita degna di questo nome. Occasione per parlare di un «piano Mattei» per l’Africa, di alleanze per l’energia con i Paesi della costa Sud del Mediterraneo, di un nuovo protagonismo italiano in quel continente. Infine, prima del 24 febbraio Meloni vuole andare a Kiev a dire a Zelensky che l’Italia non cambierà strada: la pace si farà solo quando i russi saranno rimandati a casa loro. Linea ferreamente super-atlantica del governo di Roma che manda messaggi in chiaro scuro all’Europa e soprattutto alla Bce: «Cerchi di non spargere il panico con i suoi annunci sui tassi d’interesse».

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