La riforma fiscale
deve partire dall’Irpef

Dentro un dibattito pubblico sempre concentrato sull’immediato, interessato solo ad una citazione nel tg serale, è cosa buona che si sia riaperto almeno nelle intenzioni un discorso più serio sul complessivo tema della riforma fiscale. Lo spunto è offerto dalla ripartizione dei 3 miliardi già messi a Bilancio per ridurre il cuneo fiscale da luglio prossimo. Sono quelli da aggiungere al bonus degli 80 euro cosiddetti «di Renzi», che nessuno, dopo le ironie iniziali, si è mai permesso di toccare, e che anzi ora dovrebbero essere incrementati sia in valore che nel numero dei destinatari. Secondo calcoli forse ottimisti, si tratterebbe di più di 4 milioni di contribuenti, aiutando le fasce più basse, escluse dal primo beneficio.

Ma il tema vero è ben più generale. C’è da pensare adesso, non col solito affanno prenatalizio, alla fine del tormentone Iva, smettendola con le clausole di salvaguardia (altri 20 miliardi nel 2021), e soprattutto ci sarebbe da cogliere l’occasione per rivedere l’impianto dell’imposta più importante, l’Irpef, nata quasi 50 anni fa e poi andata avanti tra eccezioni, deduzioni, revisioni, ma sempre nella stessa logica, quella della distinzione tra dipendenti e autonomi, i primi da tassare a loro insaputa, gli altri a spanne, talora per spennarli, talaltra per tollerare l’evasione.

Di Irpef si sono occupati tutti i governi recenti, ma secondo lo schema classico, quello del ritocco delle aliquote, fino alla velleità dell’aliquota unica, sedicente piatta, insostenibilmente costosa. In questi anni, l’economia è cambiata e non c’è più la prevalenza dei dipendenti a tempo indeterminato su cui la prima Irpef fu costruita. Le categorie autonome sono profondamente diverse dal passato, i numeri dell’artigianato e del commercio sono drammaticamente in discesa e salgono oggi invece mestieri diversi, che il fisco non conosce o non distingue. Anche il valore del denaro è cambiato. Un tempo 55 milioni di lire erano tanti, ma oggi non ha senso che l’aliquota del 38% scatti già a 28 mila euro, e che ogni euro sopra i 18 mila sia falciato del 30%, e sopra i 30 mila addirittura del 40%.

Dentro queste cifre c’è una parte del ceto medio che ha ragione di protestare per una sostanziale iniquità, e c’è addirittura un disincentivo a crescere, almeno trasparentemente. Sei premiato guadagnando di più, ma chi ne beneficia è il fisco! Per rimediare a questi squilibri, sono state stratificate negli anni deduzioni ed eccezioni, ma resta sempre la grande ripartizione novecentesca dipendenti/autonomi, e accade allora che vi sia una discriminazione tra un dipendente pubblico con 50 mila euro di reddito e un suo amico tabaccaio che guadagna la stessa cifra, perché solo al primo si applicano le deduzioni per figli a carico…Il pregiudizio contro le facilitazioni agli autonomi è dovuto al fatto che solo loro «possono» evadere. Ma se evadono vanno perseguiti, non forfetizzati al ribasso. Poi, può accadere anche il contrario e cioè che a parità di reddito sia più conveniente essere autonomi, talora con divari che arrivano a 20 punti di differenza. È ciò che è accaduto lo scorso anno con la mini flat tax, che ha spostato verso le partite Iva, non per scelta di vita ma per convenienza, molti dipendenti con stipendi minimi.

Sarebbe dunque ora di ripensare tutto il sistema fiscale, coordinandolo con le trasformazioni economiche e sociali: una quota minima di rispetto delle condizioni vitali essenziali e poi, al di sopra, una progressività come da Costituzione ma evitando salti nel prelievo dell’area media e facendo crescere il netto dei ceti più deboli. Il risultato deve essere quello di rimpolpare le buste paga dei dipendenti e alleggerire i pesi per gli autonomi, mettendo in circolo redditi e consumi di cui l’economia ha fortemente bisogno. In buona sostanza occorre per la riforma del fisco lo stesso coraggio emerso nel 2011 per le pensioni, una sorta di Fornero fiscale. Non sarà facile. Per le pensioni aiutò la crisi profonda di quel momento, con Il 95% del Parlamento d’accordo. Oggi, tutti smemorati. Ma speriamo che per il fisco non vi sia necessità di aspettare un’altra crisi. Le tasse sono la ragione stessa di esistenza della politica.

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