La sicurezza
e i guai in Libia

In attesa che vengano recepite le correzioni chieste dal capo dello Stato Sergio Mattarella ai due decreti sicurezza del precedente governo (ma la maggioranza sembra non avere fretta...) ci ha pensato la Cassazione a emendare il primo dei due dispositivi. La Corte, esprimendosi su un ricorso del ministero dell’Interno contro tre casi di concessione di permessi di soggiorno per motivi umanitari, ha stabilito che non può essere applicato in maniera retroattiva. Ha inoltre confermato la possibilità per tutte le persone che avevano fatto richiesta di protezione internazionale prima del 5 ottobre 2018, giorno dell’entrata in vigore della norma, di potersi vedere riconoscere la vecchia protezione umanitaria, praticamente eliminata con il decreto sicurezza. Sono 140 mila i nuovi «invisibili» per effetto della cancellazione della protezione. Sono finiti in strada, andando a ingrossare le fila degli irregolari, stimati in 670 mila per il 2020. Si può parlare quindi di «decreto insicurezza».

La Corte ha anche stabilito che il solo dato di essersi inseriti socialmente e economicamente nelle nostre comunità non è sufficiente per dare ai migranti il permesso di soggiorno per motivi umanitari: occorre comparare anche la «specifica compromissione» dei diritti umani nel Paese di origine di chi richiede il permesso. L’ex ministro dell’Interno e leader della Lega Matteo Salvini ha commentato questa parte della sentenza sostenendo che «sui permessi umanitari avevamo ragione. L’ha stabilito la Corte di Cassazione. È la migliore risposta agli ultrà dei porti aperti che vorrebbero cancellare i decreti sicurezza». «Le sezioni unite della Cassazione - spiega però Silvia Albano, giudice della sezione immigrazione del tribunale di Roma - sanciscono che la protezione umanitaria è espressione del diritto di asilo costituzionale, posta a tutela dei diritti umani fondamentali e non può essere tipizzata come pretende invece di fare il decreto sicurezza. La comparazione tra il percorso d’integrazione e la verifica che un ritorno in patria non pregiudichi i diritti umani del migrante è il principio che abbiamo sempre applicato».

Intanto un altro dossier importante del capitolo immigrazione è finito sul tavolo di un altro tribunale. E che tribunale. La Corte penale internazionale dell’Aja - quella che ha giudicato i crimini di guerra nella ex Jugoslavia e in Ruanda - sta per emettere mandati d’arresto contro esponenti libici coinvolti anche nel traffico di esseri umani, nell’ambito di una maxi inchiesta che per la prima volta porterà davanti alla giustizia internazionale i boss del traffico. Sono state raccolte montagne di prove su violenze, stupri e uccisioni sia nei centri di detenzione legali che in quelli clandestini. Ciò avrà gravi ripercussioni su Tripoli e su quei governi che foraggiano l’intero sistema, nel quale si intrecciano interessi politici e criminali. Un recente rapporto dell’Onu, finito proprio sul tavolo del procuratore dell’Aja, in 17 pagine piene di prove certifica che «la Guardia costiera libica trasferisce migranti in centri di detenzione non ufficiali» dove si ritiene che funzionari del governo «vendano i migranti ai trafficanti». Siamo al mercato degli schiavi, nel silenzio generale e alle porte dell’Europa. L’Italia finanzia con 50 milioni all’anno il governo Serraj (riconosciuto dalle Nazioni Unite), l’Ue con 328 milioni. Lo scopo è tra l’altro ammodernare la Guardia costiera che però è infiltrata da boss e trafficanti di esseri umani, e la gestione dei centri detentivi. Alla sbarra all’Aja potrebbero finire persone con cui le istituzioni europee e italiane continuano a trattare senza mai ottenere il miglioramento dei diritti umani nei confronti dei migranti. È il prezzo che abbiamo accettato di pagare per il contenimento dei flussi, senza però vigilare sugli effetti.

Sotto accusa anche le parti in conflitto, compreso il generale Khalifa Haftar, che con la sua aviazione non ha risparmiato centri di detenzione. Ma finalmente qualcuno ha fatto sul serio, indagando per garantire anche la sicurezza di chi vorrebbe emigrare.

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