La società del lavoro
fra Draghi e Romiti

Per pura coincidenza, ieri abbiamo visto due Italie. L’una descritta da Mario Draghi, al Meeting di Rimini, quando ha ricordato che privare i giovani del futuro è una grave disuguaglianza. «Ai giovani bisogna dare di più», ha sottolineato l’ex presidente della Bce, parlando ad un Paese che ha alle spalle 25 anni di stagnazione e tre recessioni. E che ora è immerso nella quarta, la più acuta, provocata dal Covid. Il tecnocrate che, aprendo i rubinetti della Banca centrale europea ha salvato l’euro, ha posto uno dei problemi centrali del nostro tempo, un colpo d’occhio sul paesaggio umano: la questione generazionale, sulle cui spalle pesa il colossale debito accumulato dagli anni ’80 in poi.

L’altra Italia, scomparsa da tempo, ci è stata restituita dalla morte di Cesare Romiti, il Grande Vecchio del capitalismo italiano, il manager (discusso, ma un cavallo di razza) che, salvando la Fiat, ha difeso senza se e senza ma le aspettative dell’imprenditoria dall’oltranzismo operaista a chiusura del ciclo degli anni ’70, che comunque aveva portato la Costituzione dentro l’universo industriale, dando la cittadinanza dei diritti ai lavoratori. Il più autorevole interprete di una classe dirigente, spigolosa ma competente e dedita alla causa, orgogliosa delle proprie ragioni non sempre condivisibili, capace però di assumersi in prima persona le proprie responsabilità e al dunque pragmatica.

Ciascuno può misurare la distanza fra le due Italie, meditare sulla condizione sociale di una società umana dentro la continuità contraddittoria della storia nazionale: fatta di emancipazione e di ricadute, di vizi antichi e di riscatti. Quasi votata ad un destino melanconico per via di una storica arretratezza, eppure capace di rialzarsi nel momento estremo. Quando tutto sembrava perduto: ieri e oggi. La riflessione di Draghi s’è posata sulla ricostruzione degasperiana dell’Italia del dopoguerra e si potrebbero aggiungere le successive cesure: miracolo economico e inflazione, conflitto capitale-lavoro, terrorismo, tramonto delle dinastie del capitalismo, esaurirsi del protagonismo operaio come «classe generale», declino della grande fabbrica fordista. La coincidenza della scomparsa di Romiti, nel contrasto fra le due Italie, aiuta a capire il cambio di pelle di un Paese, fattosi Paese-mondo, proprio dentro la fabbrica e la dispersione della cultura industriale che è un patrimonio identitario. Una mutazione genetica che riguarda il cittadino lavoratore, la sua autostima, la sua relazione con le macchine e con l’ambiente che gli era familiare.

Il lavoro flessibile e a intermittenza, i rider e i lavoretti al posto dell’impiego sicuro sino a fine corsa. La stagione che si apre con lo smart working dice oggi quanto sia lontana la società del lavoro e delle previdenze garantite, mentre i metalmezzadri del Nordest, nei ranghi del popolo delle partite Iva, hanno aperto negli anni ’90 la stagione del capitalismo molecolare che ha terremotato i caratteri delle classi sociali e le loro appartenenze politiche. L’euro ha modificato il senso dell’italianità e l’aggancio all’Europa s’è rivelato quel vincolo esterno che, nonostante tutto, ci costringe a fare i compiti a casa. La scuola marxista è andata a sbattere contro il Muro crollato, il liberismo è uscito ridimensionato dalla grande crisi del 2008. La Thatcher e Reagan sono acqua passata, Draghi cita il celebre Keynes, in gran spolvero per chi ha un’idea inclusiva del vivere comune: il fine dell’economia è trovare il giusto equilibrio per fare del bene. A lungo abbiamo scambiato la libertà a scapito della solidarietà, per scoprire con il lockdown che si è liberi nella misura in cui si è solidali. Draghi lo ha detto con una sintesi efficace ed è già un progetto di società: l’imperativo di una crescita che rispetti l’ambiente e che non umili le persone.

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