La svolta green, non bastano le speranze

MONDO. Nell’ottobre 2016 in Svezia nasceva la società Northvolt, alla guida c’erano due ex manager di Tesla, Peter Carlsson e Paolo Cerruti, «con la missione - spiegavano - di costruire la batteria più verde del pianeta così da rendere possibile la transizione europea verso l’energia rinnovabile».

Il 30 giugno 2025, le televisioni svedesi hanno inquadrato Johannes Rask mentre riconsegnava elmetto, divisa, guanti e computer. «È il nostro ultimo giorno di lavoro qui - diceva ai microfoni - stiamo restituendo tutto il nostro equipaggiamento». Rask è stato uno degli ultimi dipendenti a lasciare la fabbrica che chiudeva i battenti nella piccola città di Skelleftea, nel nord del Paese scandinavo.

Dieci di anni di storia

In appena dieci anni si è spenta l’azienda che, a detta di molti, avrebbe dovuto incarnare l’ambizione europea di avere una propria industria nei sistemi di ricarica dei veicoli elettrici. Una parabola sconfortante, che malauguratamente conferma quanto scritto sulle colonne di questo giornale la scorsa estate di fronte agli scricchiolii del gruppo, e cioè che «la transizione green non è un pranzo di gala», una vicenda certo non priva di lezioni per il futuro.

Problemi e lacune

Cosa è andato storto nell’impianto svedese di batterie con circa 6mila dipendenti, alimentato da energie rinnovabili, costruito a ridosso di una zona mineraria e quindi con il potenziale accesso ad almeno alcune delle materie prime necessarie, peraltro destinatario negli anni di fondi privati (e pubblici) in abbondanza al punto da diventare secondo alcuni «la start-up europea meglio finanziata del momento»? Ci sarà tempo per analisi più approfondite, intanto il gruppo ha spiegato di essersi dovuto arrendere di fronte all’«erosione» della propria «situazione finanziaria». «Northvolt ha provato a fare troppe cose, troppo rapidamente - ha spiegato un ex manager al Financial Times dietro assicurazione di anonimato -. Avrebbe dovuto concentrarsi soltanto su una cosa ma invece ne stava facendo tantissime». Eventuali carenze manageriali, però, sarebbero soltanto una parte della spiegazione del fallimento. Perfino le notizie di imprecisioni nel processo produttivo e di ritardi nelle consegne sono rivelatorie di problemi e lacune più strutturali. «Northvolt - ha raccontato un altro ex manager stavolta al Sole 24 Ore - ha creduto di poter competere con l’Asia senza partner. Nessuna joint venture con CATL, Panasonic, LG. Volevano fare tutto da zero».

Il dominio cinese nel settore, più che sulla speranza, si fonda su un consolidato know-how manifatturiero, la sinergia di macchinari avanzati e forza lavoro opportunamente formata, su una catena del valore integrata a partire dalla disponibilità di materie prime e minerali critici, un mercato interno caratterizzato prima da sussidi pubblici generosi e poi da una forte competizione tra produttori

Il colosso Cina

Giudicare ex post è sempre relativamente semplice, tuttavia da testimonianze come queste sembra emergere in generale una forma di hybris che ha offuscato la mente di tanti europei. Attualmente la Cina, secondo l’Agenzia internazionale per l’energia, produce oltre il 75% di tutte le batterie vendute nel mondo. Non solo, nel 2024 i prezzi medi di queste batterie sono scesi più rapidamente che altrove, di circa il 30%, rendendole più convenienti - a parità di prestazioni - del 30% rispetto a quelle europee e del 20% rispetto a quelle statunitensi. Una sola fabbrica europea, per quanto coccolata dai decisori pubblici nazionali e brussellesi, non può fare primavera. Significativo, a questo proposito, che la Corte dei Conti tedesca abbia accusato di recente l’ex ministro dell’Economia di Berlino, l’ambientalista Robert Habeck, di aver avallato un prestito da 600 milioni di euro da parte della banca pubblica Kfw all’azienda svedese Northvolt agendo «secondo il principio della speranza». Il dominio cinese nel settore, più che sulla speranza, si fonda su un consolidato know-how manifatturiero, la sinergia di macchinari avanzati e forza lavoro opportunamente formata, su una catena del valore integrata a partire dalla disponibilità di materie prime e minerali critici, un mercato interno caratterizzato prima da sussidi pubblici generosi e poi da una forte competizione tra produttori. Sono condizioni che si possono realizzare soltanto nel medio-lungo periodo.

Serve analisi critica sulle difficoltà della manifattura tecnologica

La situazione internazionale, tra interruzioni delle catene globali del valore per motivi geopolitici e decisioni spiazzanti per i rapporti commerciali come i dazi, rende la (sacrosanta) rincorsa europea al dominio asiatico ancora più proibitiva. Addirittura impossibile finché non si sarà affermata la consapevolezza che è tutta la filiera della manifattura tecnologica europea a essere in difficoltà, inclusi i classici produttori automotive e della componentistica talvolta guardati dall’alto verso il basso come fossili (inquinanti) del Novecento, e che ogni nuovo esperimento industriale per svilupparsi ha bisogno di un ecosistema il più possibile accogliente, prevedibile e scevro da tic dirigistici per quanto ben intenzionati.

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