La tassa sui profitti, un danno di credibilità

ITALIA. La tassazione straordinaria sui cosiddetti extraprofitti delle banche dimostra ancora una volta un assioma fondamentale dell’analisi politica: i governi di destra possono fare le cose di sinistra, e viceversa.

Con un corollario: tutti i governi possono fare manovre sciocche o comunque sbagliate. Perché non si può definire in termini molto più gentili un provvedimento che, nell’intento di racimolare più o meno 5 miliardi di gettito provoca una svalutazione di Borsa di oltre 9 miliardi, di cui 400 milioni persi da banca Monte dei Paschi di Siena di cui il Tesoro è azionista al 65% e che sta faticosamente riemergendo da un lungo periodo a dir poco burrascoso. Il provvedimento stupisce, oltre che per la sua improvvisazione, perché proviene da un Governo che si definisce liberale. Ma non rientra fra i principi del liberalismo qualificare i profitti fra giusti e ingiusti, fra normali ed extra. Un governo liberale dovrebbe limitarsi a considerare i profitti delle imprese come leciti o illeciti. I primi vanno tassati in misura ordinaria; i secondi vanno prevenuti, impediti, e se individuati confiscati, non solo tartassati. Altrimenti si apre un varco molto pericoloso di discrezionalità nelle scelte di politica fiscale che va ben oltre lo spazio di manovra che l’esecutivo può e deve esercitare, con il rischio molto concreto di interventi discriminanti e distorsivi del mercato e della concorrenza.

Questo sospetto grava da sempre sul nostro Paese da parte degli operatori e degli investitori stranieri, quale che sia il colore della maggioranza politica: il rischio legale o, se preferite un linguaggio più esplicito, l’inaffidabilità del nostro sistema. E purtroppo questa infelice scelta di politica fiscale avviene proprio mentre si sta cercando, con il cosiddetto disegno di legge Capitali, di mettere a punto un nuovo assetto di norme che eviti la fuga delle imprese italiane verso ambiti giuridici più accoglienti, ultimo caso in ordine di tempo lo spostamento della sede legale della Brembo. Interventi di questo tipo non fanno certo propendere a favore della piazza finanziaria italiana, visto che in Europa, composta oggi da 28 Paesi, soltanto la Spagna ha introdotto questa una tassa e gli altri 26 si accontentano di tassare in via ordinaria gli utili delle banche come quelli delle altre imprese. Per inciso: in Italia l’aliquota Ires pagate dalle istituzioni creditizie è già superiore del 10% a quella delle altre attività d’impresa.

Ma è poi vero che si tratta di extraprofitti? Il Governo, attraverso i suoi esponenti politici e non con documenti e dati che ancora non esistono, spiega che le banche stanno guadagnando di più grazie all’aumento dei tassi di interesse da quando, nel luglio 2022, la Banca centrale europea ha innalzato il costo del denaro. Le banche hanno aumentato i tassi attivi più rapidamente di quelli passivi, allargando così lo spread, la differenza fra il costo della raccolta e il rendimento dei prestiti. Le cose sono andate davvero così, ma il trucco è scegliere la base di riferimento. Luglio 2022 è il momento terminale di un decennio di tassi di interesse bassi o negativi, quelli sì un’anomalia nella storia e nel sistema finanziario: guadagnare prendendo a prestito denaro, anziché prestandolo, perché si restituisce il capitale diminuito dell’interesse, che è appunto negativo. Se prendo questo orizzonte temporale posso raccontare la storia di margini aumentati tantissimo in breve tempo, suscitando l’indignazione delle persone (non così tante) che vedono aumentare la rata del mutuo e riscuotendo un facile consenso. Ma è una storia raccontata al contrario, che prende il momento finale come se fosse quello iniziale: luglio 2022 costituisce la fine di una fase di grande sofferenza per le banche, durante la quale il mestiere di prestare soldi non era remunerativo. Cioè: non sono extraprofitti quelli di oggi, erano sottoprofitti quelli di ieri.

Per non sbagliare, guardiamo i numeri. Oggi lo spread medio è di 3,32 punti percentuali, come nel 2007 prima della crisi finanziaria. Osserviamo il divario fra i tassi sui depositi e quelli dei prestiti: a luglio del 2022 era 1,40%; negli anni Dieci del duemila è stato in media 2,22; nel primo decennio del Duemila era 3,16 e nell’ultimo lustro degli anni ’90 era del 4,46. Quale può dirsi un livello normale? Escludiamo pure gli anni prima dell’euro, ma escludiamo anche la fase dei tassi zero dopo le crisi finanziarie, e ci troviamo così nell’intorno del 3% che è il livello di oggi. Dove sono gli extraprofitti?

In conclusione: quali sono le vere conseguenze di questo provvedimento per i cittadini comuni e le imprese italiane? Non certo una ritorsione delle banche in termini di maggiori commissioni ma sicuramente una minore disponibilità a concedere credito in un momento delicato per la nostra economia. E soprattutto un danno di credibilità verso l’esterno che, pur se difficile da calcolare, sarà rilevante.

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