La tv del dolore
ha superato ogni limite

Appena 54 secondi, ma è un pugno nello stomaco. Il video che ritrae gli ultimi istanti del viaggio della funivia del Mottarone (fino allo schianto a terra) e di vita di 14 dei suoi 15 passeggeri è andato in scena in tv, con sovrapposta in un angolo la scritta «Esclusiva Tg3», firma dello scoop e ostentazione dell’orgoglio. Poi quel macabro documento è finito su altri media e sui social, visto da milioni di persone. A giustificare la messa in onda si è ricorsi al solito, ipocrita e pigro «diritto di cronaca». Ma quel diritto se non è accompagnato dal dovere di rispettare le persone e di non esporle al pubblico almeno in punto di morte, apre alla barbarie. Un limite invalicabile ormai invece superato. Nemmeno i parenti delle vittime del Mottarone avevano ancora visionato il video. È strano che uno scrittore sensibile come Ferdinando Camon difenda la diffusione delle terrificanti immagini perché «la verità non va nascosta».

Proprio lui che vive di un uso sapiente delle parole dovrebbe sapere che gli ultimi istanti del viaggio della funivia sono stati raccontati dai giornali fin nei dettagli e che altri video simulano perfettamente l’accaduto, praticamente sovrapponibili senza sbavature all’originale. La verità poi non sono quelle immagini che ne costituiscono una parte, ma la risposta alla domanda: se dei freni di emergenza manomessi sappiamo molto, perché la fune si è spezzata?

Peraltro in questa vicenda c’è anche un risvolto penale. La Procuratrice di Verbania, Olimpia Bossi, in un comunicato ha sottolineato come la pubblicazione del video sia vietata dalla legge, trattandosi di atti di indagine che, benché depositati per le parti e non più coperti da segreto, «sono relativi a procedimenti in fase di indagini preliminari». Ora però la Procuratrice dovrebbe andare fino in fondo: essendo la diffusione un reato penale, appurare da dove è uscito il materiale riservato. La vicenda è tanto più grave perché l’osceno e irrispettoso «scoop» è stato realizzato dal tg di un canale della tv pubblica, che non dovrebbe rispondere a logiche di audience greve.

Proprio in questi giorni sono stati ricordati i 40 anni dalla tragedia di Vermicino. Il 10 giugno del 1981 Afredino Rampi cadeva in un pozzo artesiano nell’hinterland Sud di Roma. Il bambino di sei anni morirà dopo che per quasi 72 ore le operazioni di soccorso di centinaia di persone terranno tutto il Paese con il fiato sospeso. Ma quella era un’altra Italia, identificatasi con lo strazio dei parenti del piccolo - sul posto portò la sua grande umanità il presidente della Repubblica Sandro Pertini - e fiduciosa in un finale buono. Una «tv della speranza», non del dolore, con 25 milioni di telespettatori, quasi metà Paese. Oggi invece c’è una morbosità verso fatti di cronaca nera che i media vivisezionano scavando nella vita delle vittime e alla caccia dei carnefici, lanciando pubblicamente ipotesi e moventi improbabili, con dirette dai luoghi ormai spogli dei segni dei delitti. È successo ad Avetrana (Taranto) per l’omicidio della quindicenne Sarah Scazzi, ma anche a Brembate di Sopra per la tredicenne Yara Gambirasio. E continua ad accadere.

Questo modo di fare informazione, esibendo la morte, ha compreso anche la cronaca internazionale. Nell’aprile 2003 i tg nazionali all’ora di cena trasmisero in diretta i bombardamenti su Bagdad. Scie luminose spezzavano il nero pece del cielo: non erano fuochi d’artificio ma traccianti che indicavano alle bombe dove colpire. Grosse palle di fuoco a terra segnavano l’obiettivo centrato: lì, dentro quel bagliore, c’erano persone morte mentre noi consumavamo i nostri piatti. In clima natalizio invece, il 30 dicembre 2006 anche le tv italiane trasmisero in diretta l’impiccagione di Saddam Hussein: il cappio al collo, senza nemmeno il volto coperto, la botola che si apre, l’ultimo rantolo del dittatore e il corpo che oscilla nel vuoto. Non fu giustizia, fu vendetta. Non fu diritto di cronaca ma la morte trasformata in un Grande fratello, una regressione paurosa di quella che amiamo definire con compiacimento civiltà occidentale.

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