La verità nel Def
una partita politica

Questa mattina torneranno a sedersi attorno a un tavolo di Palazzo Chigi il presidente del Consiglio Conte, i due consoli del governo Salvini e Di Maio, il sottosegretario Giorgetti e il ministro dell’Economia Tria. Il vertice servirà a mettere a punto le linee guida del Def che deve essere varato dal Consiglio dei ministri entro domani. I cinque sono in disaccordo su molti punti specifici, ma soprattutto sulla linea di condotta da mantenere.

Tria intende che il Documento di economia e finanza metta nero su bianco la situazione reale dell’economia italiana e dei conti pubblici: quindi una previsione di crescita del Pil che non si spinga oltre lo 0,2-3% contemporaneamente ad un 2,4% di rapporto deficit/Pil: tutto molto distante dalle ultime cifre ufficiali del Governo – quelle uscite dalla lunga trattativa con Bruxelles – che erano solitariamente ottimistiche sullo stato di salute dell’Italia. Secondo il professore di Tor Vergata adesso serve una «operazione verità» che ci faccia riguadagnare una certa credibilità presso gli investitori internazionali. I due consoli del Governo hanno una visione molto diversa da quella del loro ministro del Tesoro. La loro prospettiva infatti guarda al 26 maggio, il giorno in cui gli italiani alle elezioni europee decideranno se il primo partito italiano è ancora il Cinque Stelle o se invece la Lega ha fatto il sorpasso; se il futuro leader della coalizione – posto che rimanga in piedi – si chiamerà Luigi di Maio o Matteo Salvini. È una partitissima in cui ci si gioca l’osso del collo, e dunque il Def deve essere finalizzato ad essa, non ad altro.

Ecco perché Salvini insiste nel chiedere che nel Documento sia prevista il secondo tempo della Flat Tax, ed ecco perché Di Maio fa melina, mette paletti, storce il naso. «Voglio che si mantenga l’impegno preso con gli elettori» pretende l’uno; «Sì ma purché la riduzione delle tasse agevoli il ceto medio, non i ricchi», risponde l’altro – di fatto facendo arrotolare una bandiera che la Lega vorrebbe sventolare nelle prossime settimane soprattutto di fronte all’elettorato del Nord, agli imprenditori, ai ceti produttivi poco convinti che si sia sulla strada giusta, quella della ripresa, della crescita, del «fare». Di Maio ha un’altra esigenza: ora che il suo reddito di cittadinanza sta conquistando il Sud (Napoli ha più richieste del sussidio dell’intera Lombardia) vale la pena di assumere un tono «di sinistra» che pare utile da una parte a contrastare la Lega «di destra», dall’altra a riprendere una iniziativa che sembrava sfuggita di mano preludendo – sconfitta dopo sconfitta – al tonfo delle Europee. Del resto su questi temi identitari, sia Lega che M5S crescono nei consensi: l’una consolida il suo primato, l’altro arresta l’emorragia registrata in Abruzzo, Sardegna, Basilicata.

Secondo alcuni la contrapposizione tra i due vicepremier sarebbe addirittura un’abile messinscena concordata proprio per aumentare i reciproci voti. Sarà. Di fatto la gara deve avere un punto di caduta proprio nel Def dove bisogna mettere nero su bianco i famosi «numerini» che sono sempre interpretabili, come è noto, ma fino ad un certo punto: infatti alla fine del mese vanno mandati a Bruxelles dove sono già pronti con la lente di ingrandimento e la calcolatrice. Tria dunque (e Conte con lui) ha un difficile compito. Vedremo se e come la spunterà. Ieri intanto è riuscito in maniera silente a far passare la sua linea sui risparmiatori coinvolti nel fallimento delle banche: non ci sarà un «ristoro» automatico per tutti indistintamente come chiedevano i due partiti, e soprattutto il M5S. Si faranno delle classifiche, si divideranno i più bisognosi dagli altri e si procederà con cautela. Esattamente quel che volevano i tecnici di via XX Settembre per non incorrere nei fulmini della Commissione e in quelli della Corte dei Conti.

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