La vittoria è netta ma i problemi restano

Italia. Ora il balsamo della vittoria allevierà molte ferite, ma certo nel centrodestra i problemi restano. I voti raccolti da Attilio Fontana in Lombardia e da Francesco Rocca nel Lazio arrivano come elemento pacificatore ad appena ventiquattr’ore dalle esplosive dichiarazioni di Silvio Berlusconi sulla guerra in Ucraina (che stanno ancora creando un caso diplomatico internazionale con gli alleati e, naturalmente, con Kiev).

Si può dire insomma che la vittoria della coalizione di governo alle regionali arrivi proprio nel momento migliore. Fratelli d’Italia vince e consolida la sua leadership assoluta come primo partito italiano, ma in Lombardia la Lega non subisce il crollo che molti prevedevano e che alcuni aspettavano per rovesciare Salvini accusandolo di aver ridotto il partito al lumicino proprio nel suo territorio d’elezione. Anche nel Lazio l’andamento è simile considerando che si tratta di una regione del centrosud dove l’idea salviniana della «Lega nazionale» non ha mai veramente sfondato. Ha sicuramente ragione il ministro Calderoli quando individua nell’avvio della riforma della autonomia regionale differenziata – molto sostenuta nel Nord – una delle chiavi di questa tenuta elettorale del Carroccio.

Chi invece si sta avviando verso percentuali residuali è Forza Italia che per esempio in Lombardia, a sua volta luogo d’origine del berlusconismo in tutte le sue sfaccettature, tocca un modestissimo 8 per cento. Dunque, se l’espansione di FdI sembra ora minacciare meno Salvini, è invece ancora molto pericolosa per Berlusconi. E qui arriviamo al punto della «bomba-Silvio» ormai largamente imprevedibile per i suoi stessi seguaci più fedeli come Antonio Tajani il quale, da ministro degli Esteri, si è visto costretto a smentire sulla guerra il suo antico mentore, cui pure deve una rilevantissima carriera. Questa imbarazzante incertezza è una condizione che ci risulta molto diffusa tra i reduci di Forza Italia assai preoccupati del loro futuro politico: un tempo c’era una corrente che vedeva la salvezza nell’imbarcarsi sul galeone di Salvini che però adesso si è ridotto a un vascello. Rimarrebbe l’idea di una fusione tra i due partiti nel tentativo di condizionare meglio Meloni ma l’idea ha avuto finora scarsissimo appeal fondamentalmente per problemi evidenti di personalismo. Dunque?

Dunque si può immaginare un futuro della coalizione in cui Salvini, inneggiando alla vittoria (come ha già cominciato a fare un minuto dopo gli exit poll) rialzerà la testa nei confronti della premier anche in vista della ormai imminente stagione delle nomine nelle grandi aziende pubbliche. Salvini sta già tamburellando sulla «questione Rai», ossia il rinnovo degli attuali vertici di viale Mazzini, ma certo non si limiterà a questo.

Altre turbolenze verranno certamente da Berlusconi che non si rassegna al declino elettorale della sua creatura politica, ed è possibile che sia proprio il terreno della politica estera quello in cui vorrà farsi sentire per pungere meglio la premier alle prese con i mille problemi del momento. Giorgia Meloni, che certamente non può condividere le idee dell’anziano alleato su Putin e Zelensky – come ha fatto scrivere in un comunicato di Palazzo Chigi – forse si sarà pentita di aver definito Berlusconi «il miglior ministro degli Esteri dell’Italia».

Un elemento di grande incoraggiamento per tutti i vittoriosi esponenti del centrodestra è che l’opposizione non è minimamente in grado di insidiare i suoi primati: anche se, per ipotesi, il Pd, Calenda e Conte avessero deciso di unirsi anziché sgarrettarsi tra loro, non avrebbero comunque impedito la vittoria di Rocca e Fontana. Un elemento su cui dovranno riflettere a lungo.

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