L’Africa si fa grande
La minaccia cinese

«Aiutiamoli a casa loro!». Questo il «mantra» populista, spesso svuotato di reali contenuti propositivi, utilizzato da molti ogni qualvolta si cerchi di affrontare il delicatissimo tema, pieno di chiaroscuri e contraddittorie sfaccettature, dell’emigrazione da vari Paesi africani verso l’Europa. Al di là delle tante meravigliose iniziative di volontariato, tra cui spiccano quelle delle missioni cristiane, nessuno fino ad oggi è stato in grado di elaborare a livello politico seri interventi strutturali. Ancor più inquietante è che nessun Paese europeo e tantomeno l’Unione europea prendano a cuore quello che l’Africa sta cercando di fare in autonomia per risolvere i propri atavici problemi.

Pochissima attenzione, anche da un punto di vista mediatico e cronachistico, è stata infatti riservata ad un’iniziativa che parte da lontano e che avrebbe invece meritato un eccezionale e coordinato sostegno complessivo. Nel maggio 2013 ad Addis Abeba 55 Stati africani hanno concordato un programma chiamato «Agenda 2063», che si poneva l’obiettivo di realizzare «un’Africa integrata, prospera e pacifica guidata dai suoi stessi cittadini e che deve rappresentare una forza dinamica sulla scena internazionale».

Negli anni successivi si sono susseguiti discussioni, incontri e congressi, fino al «Vertice straordinario dei capi di Stato africani di Niamey» del 7 luglio scorso, che ha prodotto un accordo di valore epocale. Si è deciso, infatti, di ridurre del 90% i dazi imposti per il commercio tra i Paesi africani, che penalizzavano enormemente gli scambi interni rendendo più convenienti quelli con il resto del mondo. L’accordo è stato firmato da 54 dei 55 membri dell’Unione, essendosi astenuta l’Eritrea per le tensioni con l’Etiopia, successivamente superate per l’opera svolta dal primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali, insignito quest’anno del Nobel per la Pace. Si prevede che, con la quasi eliminazione dei dazi, entro il 2025 il commercio infra-africano crescerà dal 15% al 40%, sviluppando un mercato di 1,2 miliardi di consumatori che potrebbero raddoppiare entro il 2050. Si è compiuto, in tal modo, il primo passo di un percorso, puntualmente tracciato nell’Agenda 2063, che prevede la realizzazione nel 2025 del «Mercato comune africano» e nel 2030 dell’Unione monetaria, riprendendo l’esperienza dell’Unione europea.

Nel frattempo, però, continuano a realizzarsi in Africa iniziative di stampo neo-coloniale, come quelle poste in essere dall’inizio del secolo dalla Cina. Un’analisi della McKinsey, svolta alla fine dello scorso anno, ha evidenziato che tra il 2000 e il 2016 sono stati finanziati dalla Cina in Africa circa 3.000 progetti infrastrutturali. Sono stati concessi prestiti per 86 miliardi di dollari a vari governi africani. Sono stati realizzati oltre 200 miliardi di dollari di scambi commerciali. Sono state costituite in Africa oltre 10.000 società cinesi che hanno creato più di 300.000 posti di lavoro per lavoratori africani. In cambio di questi interventi, sono stati ottenuti concreti vantaggi per lo sfruttamento di materie prime quali petrolio, ferro, rame e zinco, fondamentali per alimentare la crescita interna e internazionale programmata da Xi Jinping. Il continente africano, quindi, vive in questo momento due diverse prospettive: da una parte vi è il progetto «Agenda 2063» che potrebbe incidere sugli assetti geopolitici mondiali, avendo come prospettiva il rinascimento dell’Africa e il «panafricanismo»; dall’altra c’è la crescente minaccia di un «neo-colonialismo» di stampo cinese, destinato a produrre effetti disastrosi sull’evoluzione socio-politica dell’Africa, come precedenti drammatiche esperienze hanno insegnato.

L’Unione europea, chiamata ad affrontare i flussi migratori in modo assai più corale di come sta facendo, da vera «Unione», non dovrebbe assolutamente attendere che l’Africa agisca isolata nella risoluzione dei suoi tanti drammi interni e nella valorizzazione delle sue tante potenzialità. A Niamey si è dato concreto avvio ad un grande disegno che rappresenta una sfida anche per la cooperazione internazionale e che deve in tutti i modi essere sostenuto.

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