L’angoscia del Papa per le armi che hanno preso il posto delle parole

Francesco non si rassegna e continua a lanciare appelli. Ma ieri al Regina Coeli, la preghiera mariana che in tempo di Pasqua sostituisce l’Angelus, le sue parole sono sembrate più gravi, segnate da un peso che ormai fatica a sopportare. Della guerra non si vede la fine, anzi al termine dei due mesi dall’inizio del conflitto si parla con sempre maggiore convinzione di una guerra lunga, lunghissima. Bergoglio è preoccupato e ieri mattina, sofferente per il ginocchio che gli ha impedito di celebrare la liturgia della Domenica in albis diventata Domenica della Misericordia, si è affacciato alla finestra su piazza San Pietro con un velo di tristezza sul volto più accentuato.

È stato il trentacinquesimo intervento sul conflitto in Ucraina dall’inizio dell’attacco russo, praticamente più di uno ogni due giorni, discorsi dedicati, frasi inserite in allocuzioni a gruppi, come quello di sabato ai fedeli di Treviglio, Angelus e omelie. Ha sperato almeno in una tregua ed è stato sgominato dagli eventi. Niente per la Pasqua cattolica di domenica scorsa secondo il calendario gregoriano e niente ieri per la Pasqua ortodossa secondo il calendario giuliano. Ha aderito perfino all’appello per una tregua delle Nazioni Unite con una nota scritta fatta diffondere dalla Sala Stampa vaticana, circostanza abbastanza inusuale per i pontefici che le tregue le hanno sempre invocate direttamente. Ma non è accaduto nulla. Così disarmato anche di parole Francesco ieri mattina ha lamentato che anziché fermarsi la guerra si inasprisce, anziché il suono delle campane di Pasqua si ode solo il «fragore mortale delle armi». Una tregua di Pasqua sarebbe stata un segnale minimo, ma tangibile della volontà di una svolta, della ricerca di un tavolo attorno a cui sedersi e usare per una volta le parole anziché le bombe. Invece niente con evidente preoccupazione crescente. A Mosca nelle liturgie ortodosse di Pasqua nessun accenno alla tragedia e solo un generico riferimento del Patriarca di tutte le Russie Kirill che tutto finisca presto. Putin ha partecipato alla liturgia nella cattedrale del Cristo Salvatore tra incenso e candele per rafforzare, se mai ce ne fosse bisogno, l’alleanza tragica tra il trono e l’altare che vanno all’assalto dell’Ucraina. Nessuno ha pronunciato la parola «pace», che purtroppo sembra destinata all’oblio dopo due mesi di guerra. Così come è sparita del tutto la parola «negoziato». Ieri lo ha sottolineato il Papa con parole assai tormentate: «È triste che le armi stiano prendendo il posto delle parole». La questione che angustia la Santa Sede e Francesco sta tutta in questa frase. Il vero nemico è il conflitto, il vero obiettivo è sbaragliare la guerra come metodo e tornare alle mediazioni, al dialogo insomma al negoziato. Altro da fare non c’è. Il Papa in due mesi e 35 interventi ha definito la guerra «ripugnante», ha parlato di «inaccettabile aggressione armata», di «massacro insensato», «barbarie», «atto sacrilego». Ha chiesto di smettere di ridurre le città a cimiteri. Qualcuno si aspettava una sua risposta all’appello di Zelensky che gli ha chiesto di venire a Kiev per sbloccare i corridoi umanitari da Mariupol. Ma il Papa già il 13 marzo aveva definito Mariupol città martire e fatto appello a «corridoi umanitari effettivi e sicuri». Che può fare di più se altri non lo aiutano nel negoziato, se la diplomazia, arte creativa a volte dell’impossibile, segue con fastidio il ragionamento del Papa sulla logica della guerra e le conseguenze della sua escalation? Dopo due mesi le armi hanno preso il posto delle parole. L’angoscia sincera e solitaria del Papa dovrebbe far tremare il mondo intero e tutti i suoi leader.

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