L’asse prealpino
per l’industria

L’onda lunga della riforma di Confindustria, che risale ancora alla Commissione presieduta da Carlo Pesenti, ha raggiunto e sfidato due associazioni territoriali molto importanti del panorama produttivo del post Covid, quella di Bergamo e quella di Lecco-Sondrio, protagoniste ieri di un’Assemblea congiunta che ne ha avviato la fusione. In molte zone del Paese, questo stesso processo di semplificazione è in corso, sia pur con qualche contraddizione e molte resistenze, con l’ambizione di segmentare in modo nuovo l’intermediazione d’impresa, non più secondo i confini meramente amministrativi, ma secondo direttrici economico sociali e soprattutto vocazionali.

L’asse prealpino è in questo senso quasi esemplare, e aver messo insieme la Valtellina e la pianura bergamasca offre già un primo laboratorio per confrontare la specificità di questi territori e quindi aiutarli a dare ciascuno il meglio di sé. Vero è che il disegno dovrebbe essere molto più ampio, coprendo l’intero arco prealpino e dunque comprendendo anche Varese e Como, fino all’aggregazione politicamente più complicata, quella con Brescia, ma occorrerebbe per questo una parallela maturazione istituzionale, in vista di una Lombardia pluripolare e non più Milanocentrica, ma Stefano Scaglia e Lorenzo Riva hanno il merito di aver comunque indicato con coraggio una direttrice.

Facendo emergere già ora complementarietà molto interessanti, se solo si esce dalla logica dei valori assoluti. Il settore manifatturiero di Lecco supera in percentuale di valore aggiunto provinciale quello di Bergamo (35,8% contro 32%), mentre nell’export – sempre con riferimento alla partecipazione di valore aggiunto – siamo in equilibrio (48% Lecco contro 46,7%). Infine, nel settore dell’industria meccanica la percentuale di addetti sul totale della manifattura vede Lecco sfiorare il 70%, e Bergamo attestarsi sul 56% (Sondrio è al 37,7%).

La fusione dovrà distribuire equamente pesi e contrappesi, ma fin d’ora possiamo sapere che il territorio che va dall’alto Lago di Como al Sebino, potrà contare sulla massa critica di quasi 2.000 imprese e 120 mila addetti.

Nel quadro economico nazionale, i caratteri e le aspettative di fondo che questa novità rappresenta sono stati ben delineati dallo scenarista Nando Pagnoncelli e dall’economista Marco Fortis nelle relazioni di sfondo ad un’operazione non meramente aritmetica, né tanto meno burocratica.

I dati segnalano un ritorno del ruolo delle organizzazioni intermedie, dopo un offuscamento che proprio il Covid ha contribuito a diradare, insieme alla perdita di credibilità delle semplificazioni populistiche del periodo precedente, che avevano collocato anche Confindustria e sindacati tra le élite da emarginare, trascurando il portato di conoscenza e competenza che rappresentano. Molto indicativo il picco di ritorno alla fiducia in queste organizzazioni proprio nei mesi primaverili del 2020 quando maggiore è stata la sensazione di solitudine e debolezza. Oggi, la speranza è tornata, e per quanto riguarda il futuro c’è un 41% di operatori che credono al contributo delle organizzazioni imprenditoriali per la crescita e il benessere del Paese, con un 34% che le identifica come capaci di supplire alle carenze pubbliche. E questo è in linea con la graduatoria dei problemi italiani, così come sono stati fotografati da Ipsos. Al primo posto c’è il problema occupazione e crisi economica (81%), molto più giù, al 13%, la grande trappola emotiva dell’immigrazione, ma anche il valore dell’ambientalismo (10%).

Soprattutto fa riflettere il fatto che il problema più preoccupante indicato dai sondaggi è quello della divisione all’interno della società italiana. Ultima arrivata la disuguaglianza tra garantiti e non garantiti.

Dunque, la fusione di due realtà associative è un piccolo segnale, ma conferma un trend, perché oggi le imprese vedono un futuro più di opportunità (61%) che di crisi (26%). Unirsi farà bene a questo pronostico.

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