L’avvocato ora politico
e la rotta che cambia

Domanda provocatoria, rivolta a chi sa tutto con il senno di poi: l’Italia è stata ingenerosa nei confronti di Conte? In parte sì, tralasciando i sondaggi che mantengono un certo apprezzamento verso il premier uscente, ma ricordando che i vinti meritano rispetto. Il giurista pugliese, elaborando il lutto, ha scelto la via più ragionevole: non quella di arroccarsi come l’ultimo dei giapponesi nella trincea del risentimento, ma di restare dalla parte del Paese. Può rappresentare una variabile che rimane in gioco, ritagliandosi questa volta un suo spazio tutto politico: con un suo partito, o più probabilmente intestandosi un ruolo di garante dei grillini, continuando a pettinare – come usa dire – la scapigliatura dei Cinquestelle.
Dopo le scazzottature c’è aria di garantire una transizione meno conflittuale nella direzione di nuovi assetti politici. Ad un tratto, con il metodo Mattarella e il metodo Draghi (le due facce della stessa medaglia), tutto appare possibile, rovesciando gli schemi precedenti. Pausa distensiva.

Conte meriterebbe un giudizio bilanciato: il suo secondo governo non è stato solo la somma di errori e limiti, che ci sono stati e puntualmente segnalati da una stampa che non l’ha mai amato. I deficit di un premier accusato ora di autoritarismo ora di debolezza, trovatosi dalla mattina alla sera catapultato al centro del mondo, quando il mondo è stato colpito al cuore dal Covid: nella fase più difficile per l’Italia dal dopoguerra.

Venuto dal nulla, l’impolitico fattosi politico, senza alcuna precedente esperienza, forte solo del proprio curriculum giuridico (che gli è servito), ha tenuto comunque botta. Senza la copertura organica di un partito alle spalle. Ha retto con dignità la prima ondata pandemica, mettendoci la faccia e non per interposto capro espiatorio. Onori e oneri, pagando di persona. Ovunque i leader sono sotto scacco e non hanno fatto meglio.

L’altro aspetto è l’aver portato a casa il Recovery fund: non era scontato e non è stata una passeggiata. Lo ha potuto fare, in quanto architetto dell’evoluzione europeista dei grillini di governo iniziata con la «maggioranza Ursula» alla base dell’esecutivo decapitato. La parabola dentro le istituzioni di un’Armata Brancaleone allo stato grezzo e rozzo va letta attraverso l’azione del governo, che ha arginato il populismo, e i vincoli di un parlamentarismo tanto criticato quanto utilmente flessibile.

Trasformismo? Indubbiamente, per quanto sia una costante italiana, ma anche capacità di riconvertire alla normalità un’area protestataria, tenendo conto del cantiere in corso d’opera.

Fico, la terza carica dello Stato e l’esploratore nominato da Mattarella, è quello che protestava sul tetto della Camera quando i ragazzotti volevano aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno. Di Maio è partito chiedendo l’impeachment di Mattarella e ora è un rappresentante delle istituzioni. Capriole, mutamenti faticosi e contraddittori, spesso inconsapevoli. I grillini per maturare devono misurarsi con la loro impreparazione: più perdono pezzi, più si razionalizzano. Gli ambienti che hanno accompagnato questa correzione di rotta hanno alle spalle quel costituzionalismo di matrice popolare che riusciva a integrare le masse nell’ordinamento giuridico-sociale. È stata la lezione di Aldo Moro: allargare le basi della democrazia per includere, per vestire di responsabilità quelle schegge altrimenti destinate al dissenso anti sistema. Recuperare tracce di quella pedagogia significa rendere meno complicata la quadratura del cerchio per Draghi: fare dell’Italia un laboratorio europeista.

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