Le proteste in Cina, l’economia vacilla

Non bisogna credere che le autocrazie risolvano i problemi meglio e più velocemente delle democrazie. All’apparenza potrebbe sembrare che sia così.

La quotidianità, invece, mostra altre realtà, più variegate e complesse. I cinesi non ne possono più di essere rinchiusi per intere settimane in quarantena per il Covid. Dall’autunno 2019 hanno pazientato, hanno sofferto, ma adesso basta. È arrivato il momento in cui le masse sfinite scendono per strada a protestare. Non importa quale sia il costo da pagare e il pesante rischio personale a cui si vada incontro. Regimi di quel genere sono generalmente pronti ad accusare subito «agenti al soldo di potenze straniere» e «persone deviate» per le manifestazioni anti-potere. Non pensano mai che le loro politiche e scelte siano superate dai tempi o sbagliate e la gente semplicemente non ne possa più e chiede un cambiamento.

I cinesi pretendono oggi soltanto di tornare a vivere una quotidianità normale, come succede nel resto del mondo. Il Partito comunista ha al contrario lanciato la crociata «zero Covid». Non conta che l’economia di quello che fu l’Impero celeste abbia già pagato un conto salatissimo sotto forma di mancata crescita negli ultimi tre anni. Per cause diverse, ma con dinamiche simili, succede la stessa cosa in Iran. Quando la società è stufa se ne frega dei pericoli esterni (sempre vagheggiati dai regimi), delle ribadite promesse di stabilità politica ed economica già garantite per anni, della presunta efficienza che verrebbe meno.

E reagisce a volte in modo scomposto. La Cina preoccupa e non poco. A parte le questioni di Hong Kong e Taiwan, i nodi di carattere geopolitico e di cooperazione internazionale, gli specialisti parlano già anche di modello di sviluppo da riprogettare. La crescita incentrata sulla costruzione di infrastrutture pare essere arrivata al capolinea, poiché il livello di indebitamento (320% del Pil) è troppo alto. Il virus immobiliare sembra aver infettato non solo la finanza, ma l’intera economia rallentandola ulteriormente. Le famiglie che hanno investito i propri risparmi per l’acquisto di una seconda casa (ad uso speculativo) rischiano adesso di vedere andare in fumo i propri sforzi.

Ecco perché a vari istituti di credito è stato appena ordinato di emettere bond nei confronti di imprese immobiliari. La sola Evergrande, stando ad alcuni calcoli, avrebbe - ed è lecito il condizionale - ben 300 miliardi di debiti. La Banca centrale cinese è allo stesso tempo intervenuta immettendo 140 miliardi di dollari nel mercato con l’obiettivo di garantire prestiti alla piccola e alla media industria. La domanda: conviene ancora produrre in Cina? È ormai all’ordine del giorno. I costi sono in salita, i consumi interni in discesa e la produzione non è più sicura. Come succede sempre in queste realtà, la protesta da sociale e economica è diventata presto politica. È stato criticato il presidente Xi Jinping, appena riconfermato per un terzo storico mandato. La gente ha riscoperto un’ovvietà: ossia che cedere sui diritti fondamentali in cambio in questo caso di prosperità non paga più o semmai, a lungo termine, mai. Come già avvenuto ad altre latitudini, le folle sono uscite con in mano un foglio bianco per contestare. Qualsiasi scritta avrebbe garantito loro soggiorni nelle patrie galere e il potere avrebbe avuto più spazio per la repressione. Anche in Occidente ci sono fasce di società che, per ottenere maggiore efficienza, sarebbero disposte a compromessi. Per fortuna da noi le piazze servono a ben altro. Viviamo in democrazia, anche se imperfetta.

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