Le tensioni con l’Europa tra timori e sospetti

Alla fine della campagna elettorale, arrivano gli scivoloni, le gaffes involontarie facilmente interpretabili come lapsus freudiani. Comincia Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, tradita dalle parole nel corso di una sua visita a Princeton. Dice: come in Polonia e Ungheria, se in Italia la situazione si facesse «difficile», avremmo «tutti gli strumenti». Frase che pure era preceduta dall’obbligatoria premessa: «La Commissione lavorerà con qualunque governo che gli italiani sceglieranno».

Governo, però a cui, secondo un alto funzionario (anonimo) della Commissione, «bisognerà prendere le misure». Insomma, l’imprudenza della presidente tradisce l’estrema tensione con cui a Bruxelles stanno aspettando l’esito delle elezioni italiane: se a Roma si installasse un governo troppo somigliante a quello di Orban o dei nazionalisti polacchi, sarebbe considerato una catastrofe che indebolirebbe enormemente l’Unione - e l’asse franco-italo-tedesco - soprattutto in questo frangente di confronto con la Russia. Il voto con cui leghisti e FdI (ma non Forza Italia) hanno appoggiato Orban al Parlamento europeo ha confermato sospetti e timori. Ed ecco che von der Leyen si lascia sfuggire che se votiamo la Meloni, Salvini e Berlusconi rischiamo di pagarla cara. O forse la presidente non se lo è lasciato sfuggire e voleva lanciarci un avvertimento?

Subito scattano le reazioni. Furibonda quella di Salvini, prudente quella della Meloni, tenue quella di Berlusconi (del resto Forza Italia aderisce al Ppe di cui la von der Leyen è una dei capi). Colpisce la veemenza di Salvini che ha deciso di inscenare addirittura un sit in di fronte all’ufficio romano della Commissione chiedendo le scuse o le dimissioni della presidente: con una raffica di dichiarazioni infuocate, il capo leghista ha probabilmente trovato un ottimo cavallo da montare nell’ultimo giorno della campagna elettorale, incurante dei sospetti che pesano sulla sua testa di essere legato al carro putiniano come Marine Le Pen in Francia. La Meloni, meno bisognosa di raccogliere i voti dell’ultimo momento e soprattutto più sicura della propria leadership dopo le elezioni, si è limitata a chiedere «prudenza» alla presidente della Commissione.

Altro scivolone, quello di Silvio Berlusconi. Il quale a «Porta a Porta» ha detto che Putin è stato spinto dai suoi («quelli del partito comunista») ad invadere l’Ucraina e che il leader russo si sarebbe voluto limitare alla conquista di Kiev dove avrebbe voluto insediare «un governo di persone perbene». Anche qui, è venuto giù il diluvio. Di fatto è una ripetizione della narrazione del Cremlino secondo cui in Ucraina governa gente «per male», cioè nazisti, e dunque la Russia è stata costretta ad intervenire.

Ma non era Berlusconi il garante europeista ed atlantista della coalizione di centrodestra appesantita di troppi sospetti di filo-putinismo/orbanismo? Non in quel momento dell’intervista a «Porta a Porta», evidentemente. Naturalmente il Cavaliere poi ha corretto: «Stavo riferendo la posizione di altri, dei russi, non la mia».

Il problema è che Berlusconi è forse l’unico vero amico personale di Vladimir Putin, ha impiegato mesi per condannare l’aggressione all’Ucraina e si è deciso a farlo con i toni giusti solo dopo che il Ppe (col suo presidente, il tedesco Manfred Weber) glielo ha chiesto perentoriamente. Lo scandalo per le parole del fondatore di Forza Italia è stato grande nel centrosinistra, c’è chi ha addirittura parlato di tradimento. Oggi silenzio, finalmente. Domani si vota.

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