Le violenze in Irlanda
tra la Brexit e la storia

«L’unica incertezza che rimane è: quanto sarà intensa la violenza?». La frase compare nel capitolo iniziale di una ricerca condotta, più di un anno fa, dal senatore irlandese Mark Daly con Pat Dolan e Mark Brennan, sulla base di una tesi assai precisa: ristabilire un confine fisico tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord, come sarebbe «necessario» in seguito all’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, provocherebbe un ritorno alla violenza imprevedibile nelle proporzioni ma certo. Ed è esattamente ciò che da una settimana sta succedendo, tra scontri di piazza, incendi, battaglie a colpi di pietre e di molotov, nella capitale nordirlandese Belfast e nella città-simbolo di Londonderry, quella che i cattolici chiamano solo Derry per negare qualunque legame tra l’isola e il Governo inglese.

Tutto rientra, ovviamente, nel gioco di spinte e controspinte innescato appunto dalla Brexit. Come i malumori della Scozia, che nel 2014 votò «no» all’uscita dal Regno Unito con una percentuale del 55%, ma nel 2016 votò «no» all’uscita dalla Ue con convinzione anche maggiore, il 62%. Ad aggravare il problema irlandese, però, intervengono due pesantissimi fattori: la lunghissima guerra civile (un vero conflitto a bassa intensità con migliaia di morti, durato trent’anni) e lo spartiacque politico-religioso, con i cattolici da sempre schierati per l’indipendenza e i protestanti fedeli custodi delle origini inglesi. Il grande spauracchio, ora, è che le nuove tensioni possano far saltare i cosiddetti Accordi del Venerdì Santo, faticosamente siglati in occasione della Pasqua del 1998 per mettere fine alla guerra civile.

Quegli accordi regolavano, tra l’altro, i rapporti di confine tra la Repubblica e l’Irlanda del Nord abolendo di fatto le barriere confinarie. Proprio quelle barriere che, in un modo o nell’altro, dovrebbero risorgere per rendere la Brexit effettiva anche qui. Questo problema e le sue possibili conseguenze sono arrivati molto tardi all’attenzione dei politici, sia inglesi sia europei, e come abbiamo visto anche i politici irlandesi e gli studiosi hanno lanciato i primi seri avvertimenti quando ormai il processo di separazione era arrivato al punto di non ritorno.

Così si è deciso di non decidere. L’Unione europea, accettando un regime provvisorio, ha proposto che l’Irlanda del Nord mantenga una serie di regolamenti commerciali comunitari e resti all’interno dell’Unione doganale della Ue, in modo che non sia necessario alcun confine con la Repubblica d’Irlanda, che della Ue è regolarmente membro. Sia il Governo sia il Parlamento inglese, però, hanno respinto questa soluzione-non soluzione, sostenendo (non a torto, dal loro punto di vista) che così facendo il Regno Unito, attraverso l’Irlanda del Nord, resterebbe legato alla Ue o che, peggio ancora, il confine correrebbe tra l’Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito.

Nell’incertezza sono tutti scontenti e i disordini di Belfast e Londonderry lo dimostrano. Perché i nordirlandesi sono diffidenti e temono di essere abbandonati da Londra, che a sua volta di tutto avrebbe bisogno tranne di vedere l’avvio dell’era post-Ue segnato da violenze di questo genere. Tanto più che ciò avviene quando, come dicevamo, in realtà non è stato ancora deciso nulla di preciso. E il risultato finale (confine vero, confine finto, nessun confine) potrebbe essere migliore rispetto alle attese ma anche peggiore. L’ennesima conferma del fatto che la Brexit, al di là delle posizioni ideologiche, è un evento storico le cui ricadute sono difficili da misurare. In ogni caso, non con il metro usato sia dai sostenitori sia dagli oppositori.

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