Le zavorre dell’Italia, un ostacolo alla crescita

ITALIA. Sono passati dodici mesi dal giuramento del governo Meloni e già si parla di possibile governo tecnico. Un sistema politico che dal 1948 crea tre o addirittura quattro governi in una legislatura è un’anomalia.

Una via italiana alla democrazia che i conti dello Stato rendono ora impercorribile. Il tutto si riassume in una cifra: 83 miliardi annui di interessi sul debito. Nel 2020 il carico era a 57 miliardi. Ma quel che spaventa è che nel 2026 si arriva a 103. La nota di aggiornamento al Documento di economia (Nadef) redatta dal ministero dell’Economia è un lampo di luce su una verità misconosciuta o rimossa. Un peso enorme che non può permettersi governi ballerini. La stabilità è la precondizione per porre le basi della crescita del Prodotto interno lordo. Se il Pil aumenta dello 0,8% nel 2023 siamo già in zona emergenza perché nel frattempo i tassi di interesse crescono e gli acquisti di titoli di Stato italiano da parte della Banca centrale europea vengono progressivamente meno. Adesso si sta sul mercato per meriti propri.

Non a caso il ministro dell’Economia dice di non temere tanto la Commissione europea quanto i mercati. Le agenzie internazionali di rating che danno il voto sulla politica economica di un Paese finora sono state attendiste con il governo Meloni. La manovra a deficit che si sta prospettando implica un aumento del debito. Nelle proiezioni della Nadef si ipotizza il superamento di 3mila miliardi di debito entro il 2026 e la cifra rimbomba. Il governo è vincolato dagli interessi che non è sua facoltà poter determinare e dal carico delle pensioni che aumentano in una progressione superiore a quello dell’economia e dell’inflazione. Nel documento è indicata una crescita del 13,7% nello spazio di tre anni (2023-2026).

Sono queste le conseguenze di una società che invecchia e soprattutto non innova. L’anzianità della popolazione affligge il Vecchio continente e può essere combattuta sul piano finanziario solo con un aumento di produttività del sistema, ovvero con l’aumento di plusvalore e quindi di opportunità di crescita del Pil. Se questo non accade non resta che agire sulle spese fisse. L’altra possibilità è quella di agire sulle entrate ovvero sull’aumento del gettito fiscale. E qui gli spazi ci sarebbero in un Paese che ha il record dell’evasione e dell’elusione tributaria. Se nonché il fenomeno è così diffuso che per un partito politico diventa problematico inimicarsi una parte del suo elettorato. In termini pragmatici resta quindi la via della riduzione delle spese. Il ministero dell’Economia fa pressione sui ministri con portafoglio per tagliare i costi e lo stesso dicastero di Giancarlo Giorgetti dà l’esempio con una decurtazione di un miliardo. Ma alla fine si dovrà incidere sulla carne viva ovvero sui servizi erogati. Contabilmente la Sanità al 2026 cresce di 11 miliardi, pochi ma meglio di niente.

Il guaio è che però l’inflazione non cessa di erodere e quindi quell’1% di crescita è solo sulla carta a fronte di costi che sono nel tempo lievitati nel triennio di circa il 10%. Prima o poi andrà pur detto quello che ci si ostina a rimuovere, ovvero che il male oscuro dell’economia è nel Paese e i conti dello Stato ne sono semplicemente lo specchio. Troppe promesse di bonus, di tagli alle tasse, di pensioni in un Paese che ha il suo tallone d’Achille nella crescita. Fanno testo le parole del governatore della Banca d’Italia Vincenzo Visco: negli anni ’90 le imprese avrebbero dovuto fare investimenti. Ma la flessibilità loro concessa dai governi è stata utilizzata solo per ridurre i salari. In un’Italia che ormai vive di nostalgie ve n’è una su tutte: è mancato lo slancio della classe imprenditoriale del miracolo economico. Per intenderci, quelli con la Vespa e la Seicento hanno dato ruote allo sviluppo.

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