Lega, il piede
in due scarpe
fa perdere
i consensi

Nell’ultimo sondaggio di Nando Pagnoncelli si è registrato un movimento significativo nel rapporto di forza tra i principali partiti italiani. È successo che la Lega è scesa per la prima volta sotto Fratelli d’Italia: secondo Ipsos se si votasse oggi raccoglierebbe il 20,1 per cento contro il 20,5 dell’alleato-concorrente. Si tratta di inezie percentuali dentro il margine d’errore dei sondaggi. Però non era mai successo.

Come non succedeva da anni che il Pd riacciuffasse il primo posto: 20,8 per cento. Risultato: Salvini scende da numero 1 a numero 3, e Meloni sale dalla terza posizione alla seconda. Lontani i grillini, ormai al 14 per cento. Forza Italia ruota intorno al 9. Dobbiamo considerare da dove veniamo. Salvini alle elezioni europee del 2019, le più recenti, aveva portato la Lega oltre il 34: ora sta sotto di quattordici punti persi in due anni. Nello stesso periodo, Giorgia Meloni ha conquistato quattordici punti (se scendessimo fino alle politiche del 2018 sarebbero 16). Adesso i due partiti sono pari. Vedremo cosa succederà, se cioè Fratelli d’Italia potrà ancora espandersi e conquistare altre fette dell’elettorato o se invece questo va considerato come un capolinea; e capiremo se la crisi di consensi della Lega si è ormai stabilizzata o se invece è foriera di altri cambiamenti, in alto o in basso. La partita è aperta dentro la coalizione che oggi vincerebbe le elezioni avvicinandosi al 50 per cento dei voti. Tra Lega e FdI il risultato di questa settimana è destinato a pesare da subito: siamo reduci dalle polemiche sulla presidenza del Copasir che Salvini non avrebbe voluto cedere ad un esponente meloniano, e anche dalla faticosa trattativa sui candidati sindaci, ed è probabile che assisteremo ad altri duelli.

La posizione di Meloni è quella che oggi «paga» di più in termini di consenso: il suo è l’unico partito dell’opposizione e può catalizzare il voto degli scontenti. Salvini invece ha scelto una collocazione più ambigua e potenzialmente rischiosa: lui prova ad essere un leader «di governo e di lotta»: approva le decisioni in Consiglio dei ministri però fa una propaganda tutta sua (come sostenere un referendum sulla riforma della Giustizia mentre collabora con la ministra Cartabia alla medesima riforma da fare in Parlamento). Da una parte gode dei vantaggi del potere, dall’altra porta il peso di decisioni che fatalmente scontentano ora questo ora quello e può distanziarsene solo fino a un certo punto. Secondo l’esperienza del passato così è più facile perdere voti che conquistarli.

L’arma con cui Salvini vorrebbe fermare la crescita di Giorgia Meloni e imporre il proprio comando è la federazione da costruire insieme a Forza Italia. Insieme i due partiti arrivano al 30 per cento e possono dettare legge anche ad una Meloni molto forte. Però dentro Forza Italia molti rifiutano di diventare subordinati alla Lega, alla sua politica e alla sua gestione del potere. Dal partito azzurro vengono ogni giorno segnali contraddittori: qualche apertura, qualche chiusura, molti dubbi, e persino salti in avanti che sembrano più che altro strumentali. Per esempio ieri Antonio Tajani diceva, sapendo benissimo di parlare di una cosa irrealizzabile, che servirebbe «un partito unico del centrodestra» da presentare alle elezioni con dentro tutti, da Berlusconi a Salvini a Meloni; campa cavallo. Senza contare che la Cdu tedesca, leader del Ppe di cui Forza Italia fa parte a Strasburgo, ha già reso note le sue perplessità di fronte ad un’operazione che gioverebbe solo alla Lega e le regalerebbe la patente «europeista» che oggi le manca.

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