Letta e Calenda, alleati per forza

Dicono che la base di «Azione» sia in rivolta contro il «tradimento» di Carlo Calenda che martedì 2 agosto, dopo lunga ed estenuante trattativa, ha finalmente stretto un accordo con Enrico Letta. Basta leggere sulle pagine social del movimento e di «Più Europa», il raggruppamento di radicali come Benedetto della Vedova ed Emma Bonino, per rendersene conto: l’idea di arrivare ad una alleanza elettorale col Pd in effetti non piace a molti, e forse in cuor suo nemmeno a Calenda che tuttavia da Letta ha ottenuto quello che voleva: soprattutto che nei collegi uninominali – dove secondo la legge elettorale bisogna presentare un candidato comune a tutti i partiti della coalizione e quindi possibilmente non sgradito a nessuno di loro – non ci saranno ex grillini e nemmeno leader di partito che abbiano votato la sfiducia a Draghi, quindi né Fratoianni (Sinistra italiana) nè Bonelli (Verdi).

Poi Calenda ha fatto mettere nero su bianco alcune cose del programma che gli stanno a cuore e che funzionano da marker identitario: per esempio il no a nuove tasse e il sì ai rigassificatori che il governo ha mobilitato per contrastare il ricatto russo ma che i settori di estrema sinistra ambientalista considerano una bestemmia anti-ecologica. È in effetti bastato questo, a mo’ di treccia di aglio, per far fuggire i medesimi Fratoianni e Bonelli (che pure erano alla ricerca di una casa dove tentare di essere eletti essi stessi): oggi Letta li incontrerà per vedere come riparare allo sgarbo. Allo stesso modo il segretario del Pd ha incontrato ieri Luigi Di Maio, alleato con il suo «Impegno civico», che Calenda non dovrà fare lo sforzo di votare in quanto usufruirà del diritto di tribuna offerto dal Pd (in pratica dovranno eleggerlo i democratici).

È probabilmente vero che se Calenda fosse andato da solo avrebbe accumulato più voti soddisfacendo i «puristi» tra i suoi sostenitori: in questo ha fatto prevalere una logica di coalizione, nel senso che se gli avversari di Giorgia Meloni hanno una speranza di vincere, la trovano solo stando il più possibile uniti. Ecco perché Letta farà ogni sforzo anche per assicurarsi i quattro voti di estrema sinistra e verdi, e magari anche quelli (non molti di più) di Renzi. Nei confronti del detestato ex premier sia Letta che Calenda proclamano di avere «le porte aperte» (la Bonino no, neanche per idea) ma tutti sanno che non è proprio vero, ed è quindi possibile che alla fine Italia Viva faccia da sola la sua battaglia, e in questo caso difficilmente potrebbe superare lo sbarramento del 4 per cento («Ma noi, che rifiutiamo il diritto di tribuna, arriveremo al 5!» proclama fiducioso Renzi: chissà).

Tutto questo ci dice che il centro-sinistra (attenzione: col trattino) sta cercando in ogni modo di raccogliere le forze per schierare più truppe possibili contro l’esercito nemico, assai più potente. Anche se, a guardar bene, a Letta potrebbe bastare superare Fratelli d’Italia e potersi dichiarare «primo partito italiano». Anche nella sconfitta della coalizione di centro-sinistra, questo lo lascerebbe tranquillo sulla sua poltrona di segretario del Pd e nello stesso tempo stempererebbe il successo di Giorgia Meloni. Ma, come dicono a via del Nazareno, tutta la partita è aperta, e non si possono fare previsioni. Per esempio sull’astensionismo: non è escluso che la prospettiva di vedere Giorgia Meloni a Palazzo Chigi possa riportare alle urne torme di elettori di sinistra delusi sia dal Pd che dal M5S ma non al punto di ignorare la presa del potere da parte di una ex ragazza del Msi.

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