Libano macerie
che fanno male

Casuale o dolosa, in un deposito di nitrato d’ammonio o in un arsenale di missili, l’esplosione che ha devastato il porto di Beirut e parte importante della città è il simbolo più terribile ed efficace della fine di quello che veniva definito «miracolo libanese». Ovvero, la navigazione relativamente tranquilla, tra i flutti perigliosi del Medio Oriente, di un naviglio piccolo (5,5 milioni di persone), circondato da vicini agguerriti e minacciosi (Israele e Siria, che l’hanno occupato a turno), segnato dalle divisioni etniche e religiose (18 confessioni, di cui 12 musulmane e 6 cristiane) ma abbastanza pragmatico da organizzare una spartizione scientifica delle cariche (presidente della Repubblica cristiano, capo dell’Esercito musulmano sunnita, presidente del Parlamento musulmano sciita…) per accontentare ogni possibile sfumatura settaria.

Di tutto questo ora restano solo macerie. La prima catastrofe, infatti, non è stata quella del porto ma quella dell’economia. Il Libano vive da decenni sulla base di un meccanismo perverso. Pochi investimenti produttivi, tanto supporto finanziario ai settori dell’edilizia e dei servizi, fondato su investimenti esteri attratti con gli alti tassi d’interesse offerti dalle banche libanesi. In sostanza: debiti vecchi coperti con debiti nuovi. E infatti il Libano vanta, si fa per dire, il terzo più alto debito pubblico del mondo (102 miliardi di dollari, pari al 170% del Pil), dopo quelli di Giappone e Grecia. La tipica piramide di tante truffe finite male. Durata finché nell’ingranaggio è entrata la più fatale delle manciate di sabbia: il crollo del prezzo del petrolio. Gli investimenti esteri sono finiti, i debiti sono rimasti.

La seconda esplosione è arrivata nel marzo scorso, quando il Governo ha dovuto dichiarare il default, ammettendo di non essere in grado di rimborsare i prestiti e ripagare i debiti e chiedendo il soccorso urgente delle istituzioni internazionali. Le banche libanesi hanno chiuso gli sportelli e bloccato le operazioni. Questo ha avuto due conseguenze. Ha precipitato la popolazione nel bisogno (il 45% dei libanesi, secondo la Banca mondiale, vive sotto la soglia della povertà) e ha rinfocolato una protesta sociale ch’era partita già mesi prima ma che è diventata meglio organizzata e più definita.

Il dato più importante, a tal proposito, è che la contestazione è trasversale, ha mille anime ma un solo obiettivo: la classe politica tutta, giustamente giudicata corrotta e inaffidabile. E questo avviene perché nei decenni il tradizionale senso di appartenenza settaria (sono sunnita, sono sciita, sono cristiano) si è pian piano stemperato in un più largo senso di cittadinanza: sono libanese. E sotto accusa, oggi, c’è proprio il sistema di cui parlavamo all’inizio, la spartizione per gruppi, che mortifica le potenzialità del Libano, incentiva le speculazioni e riduce il Paese a spoglia da dividere.

E qui corre la miccia di una terza possibile esplosione. In potenza, la più micidiale. L’unico movimento politico-religioso che mantiene forti radici popolari è oggi Hezbollah. Combattendo l’occupazione israeliana del Sud del Paese, terminata nel 2000, il Partito di Dio aveva acquisito una forte credibilità agli occhi delle altre componenti. Ma non ha mai saputo uscire dal recinto sciita (uno sciismo, per di più, di stretta osservanza filo-iraniana) per produrre una proposta davvero nazionale. Così, oggi, si è ridotto a difendere il vecchio sistema, lo status quo della spartizione. Non a caso gli ultimi Governi, sempre più precari e sempre meno credibili, si sono retti appunto sull’appoggio di Hezbollah, che teme il cambiamento come un salto nel buio.

È ovvio, peraltro, che senza cambiamento non c’è speranza. E che in ogni caso il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e gli Stati che si mobiliteranno per salvare il Paese dei cedri non vorranno investire senza avere in cambio adeguate garanzie sulle riforme, ormai indispensabili. Che a loro volta difficilmente potranno andare a buon fine se non si metterà mano anche al sistema politico. Al suo funzionamento ma anche ai suoi interpreti.È una specie di labirinto da cui sarà difficile uscire senza traumi. E purtroppo siamo in una parte del mondo in cui ai traumi si risponde fin troppo spesso con il kalashnikov.

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