L’investitura del voto e i limiti necessari

L’ANALISI. Il mondo, nel corso del XX secolo - scriveva lo storico Eric Hobsbawn - ha subito delle profonde trasformazioni morfologiche, diventando «un campo operativo unitario».

Per poter gestire adeguatamente tale complessità occorrono strategie integrate, unite in un disegno organico di azione. Il solo intervento degli Stati nazionali non può bastare; ma non basta neanche l’attività delle organizzazioni internazionali, poiché lo spazio internazionale globalizzato, a differenza del tradizionale spazio sovranazionale, non è più abitato solo dagli Stati ma è costituito in rete da altri soggetti che sembrano stringere gli Stati nelle maglie di un assetto di reciproche e sempre più estese interdipendenze. La complessità e radicalità del fenomeno impongono un’accurata riflessione sulle conseguenze che il processo di globalizzazione ha prodotto anche sul principio di legalità, poiché la realtà socio-politico-economica presenta una marcata multidimensionalità che non può essere ignorata. Anche sul piano interno, in presenza di una sempre più pressante richiesta di maggiore partecipazione ai processi decisionali pubblici, la gestione della legalità deve essere connotata da collaborazione tra vari livelli interessati (soggetti politici, cittadini, mondo d’impresa).

Il tempo presente mette in luce fenomeni di incertezza sul futuro delle democrazie, così come erano state immaginate e progressivamente cristallizzate negli ordinamenti attraverso la costituzionalizzazione del XIX e XX secolo. In tale quadro l’aspetto politicamente di maggiore criticità si intravvede nella tendenza a identificare consenso popolare e legittimazione. Ciò implica una pericolosa torsione mediante la quale i soggetti abilitati dal voto popolare prevalgono su ogni altro criterio di demarcazione del potere. La sostanza effettiva del populismo si concretizza nel concepire la «volontà popolare», rispetto alla quale cadono i soggetti cui spetta il compito di assicurare garanzie. Da ciò derivano l’ossessivo richiamo alla gente; il linguaggio slabbrato e offensivo; la disintermediazione che salta a pie’ pari tutti i soggetti ritenuti superflui nelle scelte pubbliche. Al riguardo assume particolare rilevanza la dimensione del concetto di legalità, il quale rinvia a quell’insieme di comportamenti, saperi, abitudini che si sedimentano all’interno di una società. Tali fattori portano a ritenere che l’assioma diritto uguale legalità sia da ripensare profondamente. Ciò a partire dal fatto che non sempre il diritto (inteso come norme positive) si traduce in legalità (intesa come sostanziale equità delle regole giuridiche).

Di fatto, sostenere che la legittimazione derivante dal voto popolare consegni alla parte politica maggioritaria in un dato momento storico una supremazia, che rende nulli tutti i meccanismi di bilanciamento necessari alla fisiologia di un sistema democratico, mina alle basi lo Stato di diritto, perché ne vanifica la funzione di garanzia delle minoranze, di affermazione della legalità, di salvaguardia degli istituti di democrazia e di controllo. Si ripresenta alla ribalta, di conseguenza, il concetto di «dittatura della maggioranza». Tale visione - che assegna un potere illimitato ai soggetti che, pro tempore, hanno attenuto l’investitura popolare (anche nella forma del suffragio universale) - è in antitesi con i fondamenti delle moderne democrazie. Rispetto ad esse, infatti, il «principio di maggioranza, senza il freno delle leggi, si rovescia in arbitrio, e il potere - invece di trovare limitazione - rafforza la sua arroganza e pretende l’onnipotenza.

È infatti storicamente accertato che la forzatura dei principi democratici, ottenuta mediante l’abuso delle prerogative della maggioranza, tende a nullificare ruolo e funzioni delle minoranze , che degli ordinamenti democratici sono parte essenziale, finendo fatalmente per sfociare nel plebiscitarismo.

Occhiello

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