Lo sciopero? Ma il punto è creare lavoro

ITALIA. Gli scioperi generali sono sempre politici ed così è anche per quello indetto, senza timori scaramantici, per venerdi 17, nato infatti sotto una cattiva stella, prima con una puerile contesa personale tra politici e sindacalisti e poi con un polverone sul ruolo del Garante, camminando sul filo di rasoio di un diritto fondamentale.

Il leggendario leader sindacale Giuseppe Di Vittorio considerava la mobilitazione generale un caso estremo. La protesta verso una modesta legge di bilancio è giustificata, ma non è sicuramente un caso estremo insopportabile, è solo il riflesso di una economia soffocata dal debito. E infatti la mobilitazione sembra un’altra occasione perduta per affrontare in positivo la questione lavoro come risultato di sistema, un punto di arrivo e non una partenza forzata. Il paradosso è che un tempo gli scioperi si facevano per l’occupazione, ma oggi siamo in presenza di dati almeno apparentemente molto buoni. Il tasso di disoccupazione è sceso al 7,4%, in un Paese che viaggiava verso il doppio da molto tempo. Anche l’occupazione al 61,7% è un record, assorbendo già oltre mezzo milione di posti di lavoro in più rispetto all’anno scorso. Siamo arrivati a 23/24 milioni di persone occupate e non saremo la Germania, ma almeno la Francia sì.

Non tutti i sottoinsiemi di questi grandi numeri sono però altrettanto confortanti. Tra i giovani, la disoccupazione è quasi al 22%, anche se avevamo raggiunto ben altre vette, o meglio abissi. Sono in calo, ma troppo poco, i cosiddetti «Neet», cioè i giovani senza scuola né lavoro, ora a quota 1,67 milioni: sono quelli che sono sul divano di casa mentre padri, madri e nonni ascoltano increduli in Tv i dati trionfali dell’occupazione di cui sopra. Penultimi in Europa, davanti solo alla Romania, e infatti troppi giovani di valore emigrano.

Quanto alla qualità del lavoro, siamo sempre alle dolenti note. La produttività è stagnante da decenni: è la vera grande preoccupazione di tutti gli osservatori seri. E anzi, incrociando la crescita dell’occupazione con lo stentato andamento della produttività, è facile sospettare che sia occupazione di non grande qualità. Che sostiene salari bassi, altro problema italiano. Ci spacchiamo (anche in casa sindacale) per lo sciopero, ma l’impressione è che si continui a guardare al passato. In tema di lavoro, l’ieri, l’oggi e il domani appartengono ad ere geologiche diverse, in una fase in cui persino la settimana di 4 giorni diventa plausibile. Dei problemi di domani si parla solo in termini difensivi rispetto all’innovazione tecnologica, e di quelli di oggi si parla con nostalgia per le soluzioni di ieri.

Per 15 anni, fino al 2019, e poi un pochino dopo la pandemia, i contratti a tempo determinato erano cresciuti fino a 3,1 milioni (+70%), ma dal 2018 ad oggi si può misurare un calo del 2,19% e - udite udite - un aumento del 6,12 di quelli a tempo indeterminato. Se mettiamo nel conto anche il calo del lavoro autonomo, la percentuale del tempo indeterminato è del 66%.v E allora perché si usa un linguaggio anni ’70 e perché il partito che ha introdotto i contratti a tutela crescente, che hanno funzionato, chiede ora di abolire con referendum il jobs act? Come si fa a voler riesumare l’articolo 18, il cui superamento ha consentito di allentare le rigidità in entrata?

Lo sciopero è contro la legge di bilancio ma allora si segnalino i problemi veri della nostra economia, a cominciare da un debito che si mangia in interessi 85 miliardi di investimenti possibili. Sarebbero motivati cartelli pro concorrenza, o contro i preoccupanti ritardi nell’attuazione del Pnrr, che versa soldi europei anche a fondo perduto in cambio di riforme che stentano o vanno rifatte, come quella della giustizia, oggi posposta alla non proprio fondamentale questione del premierato (e delle autonomie). Ci vorrebbe un cartello più grande di tutti, ma non lo vedremo, per spiegare la cosa più semplice, e cioè che per distribuire bisogna prima produrre, e che per dar lavoro non servono le vie di fuga nel mondo fatato delle ideologie, ma è necessaria la buona salute del sistema produttivo.

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