Lo scontro vero è
tra Russia e Stati Uniti

Più passano i giorni, più si prolunga la crisi che tiene il mondo con il fiato sospeso, più diventa evidente che, a dispetto della giusta attenzione per le sofferenze del Donbass, il contrasto non è tra Russia e Ucraina ma tra Russia e Stati Uniti. E lo dimostrano le due mosse decise a Mosca nelle scorse ore. Da un lato, le truppe e gli armamenti russi che erano affluiti in Bielorussia per una serie di esercitazioni congiunte, non torneranno a casa ora che le manovre sono concluse ma resteranno sul posto, «causa dell’inasprirsi della tensione nel Donbass», come recitano i comunicati ufficiali. Nello stesso tempo, sono cominciate improvvise manovre (in stato di «pronti al combattimento») delle truppe della Transnistria, l’entità territoriale filorussa che sta tra l’Ucraina e la Moldavia.

Particolarmente pesante la mossa in Bielorussia: per quelle esercitazioni, Mosca ha trasferito in una zona vicina all’Ucraina ma anche alla Polonia armi micidiali, come i bombardieri atomici Tupolev o il sistema anti-missile S-400. Anche perché il presidente bielorusso Lukashenko ribadisce di essere pronto a ospitare missili atomici russi in caso di scontro con la Nato. Tutta questa mobilitazione non ha senso se riferita all’Ucraina, troppo grande per essere occupata, troppo debole per essere una minaccia. Ha senso solo se lo scopo di Mosca è riscrivere i patti internazionali sulla sicurezza, cosa che può pensare di fare solo tramite un accordo con gli Stati Uniti.

In altre parole, Vladimir Putin sta mandando questo messaggio: voi americani, con la Nato, siete arrivati ai nostri confini, avete armato i Paesi dell’Est che ci sono ostili, volete addirittura insediarvi in Ucraina? D’accordo. Ma per noi questa è la minaccia finale. Quindi vi dimostro che cosa vuol dire sentirsi minacciati, avere le armi altrui al confine, avere paura. Perché o ci sentiamo sicuri tutti o, con le nostre armi e la nostra volontà politica, o faremo in modo che non si senta sicuro nessuno. Non c’è dubbio, è un atteggiamento brutale. E per un Occidente convinto della propria superiorità etica (la democrazia), tecnica ed economica, almeno in parte incomprensibile. Ma non culliamoci nell’illusione che si tratti di un bluff o di un atteggiamento che possa essere respinto facendo la faccia feroce o gestendo un braccio di ferro di lunghezza infinita.

La Russia non cederà prima di aver ottenuto un qualche risultato concreto, perché quel sentimento di cui parlavamo (sentirsi assediata) risponde a una precisa convinzione, di più: a una percepibile angoscia. Finché il mondo era unipolare, cioè dominato dagli Usa, la Russia era troppo debole per opporsi e non ha potuto fare altro che abbandonare i suoi tradizionali avamposti: nei Balcani, nell’Europa dell’Est, nel Baltico. Ha conservato una certa influenza solo in Asia Centrale. Quando si è rialzata, ha scoperto che il mondo non era più unipolare ma bipolare, con due giganti come Usa e Cina pronti a schiacciarla. Con la Cina la Russia non può competere e, soprattutto, non ha interesse a competere.

Con l’Occidente, invece, pensa di poter realizzare una certa rivincita, approfittando delle divisioni americane (e l’incerto cammino interno di Joe Biden, ai minimi nel gradimento, dimostra che l’analisi non è banale) e di quelle ancor più evidenti di un’Europa in cui 27 Paesi stentano moltissimo a trovare una linea comune. Il senso di questi mesi di preoccupazione è tutto qui. E questo spiega anche perché, a dispetto di tutte le mobilitazioni e delle sparatorie, la diplomazia non ha smesso per un attimo di produrre i propri sforzi. Presto toccherà a Mario Draghi, pronto a recarsi a Mosca. È un uomo ascoltato in Europa come pure a Washington, e potrebbe essere una voce decisiva nel coro dei potenti che chiedono a Putin e Biden di riporre l’ascia di guerra.

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