Lo smarrimento
dei democratici

Il termine «età dello smarrimento», con la sua aristocrazia espressiva, è risuonato più volte al recente incontro del Pd a Bergamo per il lancio del ticket Martina-Richetti in vista delle primarie del partito in due fasi: il voto degli iscritti dal 7 al 23 gennaio e quello finale degli elettori il 3 marzo. Una corsa al limite, perché si tratta di rimettere in piedi una comunità disorientata e brutalmente sconfitta e una classe dirigente che non ha ancora assorbito i rovesci: di lì a poco bisogna comporre le liste dei candidati alle Europee di maggio, cioè passare dalla filosofia alla cucina, e poi vedere che effetto fa lo tsunami annunciato. Non sarà la fine del mondo, ma di un certo mondo sì: quel che conta, piaccia o meno, è la percezione della realtà. Questo smarrimento, che pervade le società occidentali, lo si è colto senza fatica nei volti e nelle parole dei democratici riuniti a celebrare l’avventura di Martina-Ricchetti, al di là delle migliori intenzion i di riscossa degli interessati.

Uno smarrimento che sta dentro i tormenti dell’ex partito sistema e tuttora non in grado di essere l’alternativa, di raccogliere quel che la società va maturando: chi protesta, chi morde, chi partecipa, chi si fa gli affari suoi. Le linee di comunicazione si sono interrotte, la connessione emotiva s’è bloccata. Pezzi di società che si rimettono in moto: non intercettati, privi pure di una rappresentanza peraltro non cercata. Un’Italia dove «tutto cade, ogni ideale svanisce. I partiti non esistono più, ma soltanto gruppetti e clientele. Dal parlamento il triste spettacolo si ripercuote nel Paese. Ogni partito è scisso. Tutto si frantuma. Le grandi forze cedono di fronte a uno spappolamento e disgregamento morale di tutti i centri d’unione». Questa pennellata d’autore non descrive l’Italia 2018 ma quella del 1910 ed è opera del grande intellettuale Giuseppe Prezzolini, il padre di tutti gli anarco-conservatori. Questo per dire come le contorsioni della storia, andando oltre categorie ben determinate e tristemente note, alla fine si ritrovino nel cortocircuito, là dove le società dismettono gli abiti della civiltà giuridica.

I sociologi del Censis, recentemente, hanno parlato di un Paese passato dal rancore alla cattiveria, mentre l’inglese Christopher Bollas, teorico della psicoanalisi contemporanea, ha scritto un libro («L’età dello smarrimento», Raffaello Cortina Editore) per ricordare i guasti dell’esaurirsi del mondo delle «persone riflessive», in quanto «capaci di riflettere sull’esperienza vissuta e sugli enigmi che la vita mentale pone». Se il vivere politico comincia ad essere spiegato da psicologi e affini, c’è qualcosa di serio che non va nello stare insieme, qualcosa di malato. Una certa Italia cattivista è figlia di una gerarchia di valori e di priorità che è saltata dopo essere stata condivisa: se tutto diventa orizzontale e relativo, a dominare è la parola d’ordine e dietro l’angolo c’è l’Italia riassunta da Prezzolini. Salvini e Di Maio non vengono da Marte. Si può partire da qui per analizzare lo psicodramma del Pd: il partito insieme più novecentesco e più moderno, che si definisce plurale senza aver risolto il rapporto con la leadership. E che dopo averle provate tutte (un po’ di qua e un po’ di là, un po’ establishment e un po’ ceti popolari, un po’ di ricchezza da produrre e un po’ di redistribuzione) si riconosce ammaccato e chissà quanto creda ancora in se stesso. Voleva «disintermediare», cioè bypassare i corpi intermedi della società, si ritrova disconnesso dagli umori collettivi. Ha teorizzato la società aperta e s’è chiuso in tribù rissose, fra vecchie ruggini velenose. Dai cugini francesi ha preso i tic più infelici: dopo il banchetto per il nuovo sovrano ha allestito il patibolo, senza riguardo per i parenti e per l’argenteria di famiglia. Sarà pur vero, come da titolo, che il partito voglia cambiare, ma nel caso c’è aria di ritorno ad un passato identitario: una specie di nostalgia del «come eravamo», più che un irraggiungibile «come vorremmo essere».

Paradosso vuole che dietro Martina e Richetti ci sia l’area renziana al completo (tutti i parlamentari tranne 5) senza Renzi e che lo stesso Renzi non voglia più essere renziano e semmai – ecco un altro capitolo dello smarrimento – un D’Alema a schema rovesciato, se è vera l’ipotesi di un suo partito. Concettualmente disarmato e privo della convinzione che ci si può riscattare senza smarrirsi e senza perdersi di vista, il Pd ricomincia da quel che ha costruito per poi smontarlo: dopo l’ulivismo di Prodi, il Lingotto di Veltroni, il rinnovamento di Renzi, il progressismo europeista di Gentiloni. Le primarie passeranno senza rivelarsi memorabili, resta il campo da gioco ai minimi termini: una traversata nel deserto, un viaggio nell’età dello smarrimento collettivo, più o meno consapevole.

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