Lo strappo della Lega: opposizioni senza unità

ITALIA. Ci sono indizi che valgono più di molti discorsi. Vale per il caso politico -sottaciuto ma pur sempre clamoroso - che è andato in scena questa settimana. In Consiglio dei ministri si è consumata la rottura tra Lega e il resto dei soci della coalizione di centrodestra sul ricorso, avanzato dal governo davanti alla Corte Costituzionale, contro il terzo mandato dei presidenti di Regione.

Riguarda la rielezione di tre governatori regionali: di Lombardia, Veneto e Venezia Giulia, tutti del Carroccio. Perderli significherebbe per Matteo Salvini perdere le postazioni storiche del partito che fu di Umberto Bossi. Un disastro. La delegazione leghista non ha avuto dubbi: s’è messa coralmente di traverso.

Un voto contrario in Consiglio dei ministri non è un atto qualsiasi. Normalmente, una rottura di tal fatta determinerebbe automaticamente una crisi di governo. Salvini s’è affrettato a mettere le mani avanti. Ha declassato il voto della Lega a semplice «fatto locale», senza che nessuno degli altri due partner abbia avuto alcunché da ridire

«Nessuna crisi»

Un voto contrario in Consiglio dei ministri non è un atto qualsiasi. Normalmente, una rottura di tal fatta determinerebbe automaticamente una crisi di governo. Salvini s’è affrettato a mettere le mani avanti. Ha declassato il voto della Lega a semplice «fatto locale», senza che nessuno degli altri due partner abbia avuto alcunché da ridire. Nessuna crisi, quindi. La crisi non c’è stata, ma lo sbrego consumatosi merita, non di meno, una riflessione. La rottura della maggioranza sulla spartizione delle cariche in periferia e la contestuale declassificazione dello strappo consumatosi, fatto privo di conseguenze politiche, sono infatti chiari indizi dello stato dell’arte della politica nazionale.

Indizio numero 1. Che un contrasto su spartizioni di potere risulti talmente deflagrante da portare a una plateale spaccatura che nessun’altra questione di spiccato valore politico (come sanità, scuola, tributi, guerra) è mai riuscita a provocare, dimostra che il problema della competizione interna alla coalizione ha la prevalenza sulla definizione delle scelte di politica generale.

Indizio numero 2. Se i soci della coalizione possono litigare fino a consumare una rottura, senza che l’alleanza di governo sia messa in discussione, significa che nessuno dei partner ha la minima intenzione di rompere.

Non è un caso che l’unica leader ad avvantaggiarsi di questo stato un po’ deprimente della politica nazionale sia la Meloni

Indizio numero 3. Se i partiti di centrodestra mostrano di curarsi più dei loro equilibri interni che dei gravi problemi che affliggono il Paese, c’è da dedurne che il governo si sia messo su una strada che non promette bene per le sue fortune elettorali. Tutto dipende, però, dalla capacità dell’opposizione di approfittare delle debolezze della maggioranza. Il fatto è che il centrosinistra accusa gli stessi limiti della coalizione avversaria. Se il centrodestra si divide sul tema del terzo mandato, il centrosinistra si divide sui cinque quesiti referendari in calendario l’8 e 9 giugno prossimi. In entrambi i casi, la definizione degli equilibri interni alla coalizione fa premio sulla definizione di una strategia da seguire sulle grandi questioni nazionali. Non è un caso che l’unica leader ad avvantaggiarsi di questo stato un po’ deprimente della politica nazionale sia la Meloni. La leader di Fratelli d’Italia sta avendo buon gioco a marcare le distanze da una politica fatta solo di piccole beghe di potere, dirottando il meglio delle sue energie sulla politica estera. È su questo terreno che costruisce una sua immagine vincente. Per Renzi, è solo immagine e niente realtà. Più o meno fondata che sia la sua tesi, il prode Matteo non si accorge che con tali affermazioni fa più male all’opposizione che alla maggioranza. Se la politica del governo è «sotto l’apparenza niente», che credibilità può avere una forza politica d’opposizione che non riesce nemmeno a inchiodare la maggioranza al suo niente?

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