Lotta al virus, se anche
la Germania va in crisi

«L’azione delle varianti rende la situazione particolarmente pericolosa», dice il ministro della Salute tedesco Jens Spahn in conferenza stampa a Berlino. Di questo passo anche le 28 mila terapie intensive non basterebbero più. Manca il personale specializzato. La Germania è nuda. Il virus ha reso chiaro anche alla quarta potenza economica mondiale che una guerra come questa non si combatte da soli. E tuttavia è fatale che nella lotta combattuta contro il Covid si creino delle differenze. Vi sono Paesi che conoscono meglio l’arte della guerra e quindi della strategia.

La novità è che tra questi non rientra la Germania. La convocazione improvvisa di una conferenza stampa a Berlino per annunciare per bocca del cancelliere Angela Merkel che quello deciso due giorni prima ovvero il lockdown per le feste di Pasqua andava ritirato, non valeva più, è un unicum ed al contempo un segno. Il segno che le ragioni umane prevalgono sulla ragion di Stato, che anche un cancelliere sbaglia e lo ammette e soprattutto che anche in Germania non si programma o si programma male, talmente male da doversi poi rimangiare la parola. E la cancelleria non era sola. La riunione era con i tutti i 16 Länder riuniti in conferenza per 15 ore consecutive.

Tutto il sistema Germania in un concentrato di potere politico tanto assoluto quanto fallace. Come giustamente notato da un vecchio conoscitore della Germania come Giuseppe Vita, già presidente di Unicredit e presidente del consiglio di sorveglianza di Springer Verlag, ovvero l’editore di Bild Zeitung e di Die Welt, la Germania è come un piroscafo capiente, potente, capace di grandi percorsi anche veloce se la rotta è diritta ma non agile e flessibile. E il virus impone capacità di adattamento perché colpisce all’improvviso, è veloce e soprattutto con le varianti diventa mutevole e imprevedibile.

Un nemico al quale vanno prese le misure. Gli anglosassoni hanno una consuetudine alla lotta e all’adattamento pragmatico che in questi frangenti si è rivelata determinante. Hanno sbagliato tutto quello che si poteva sbagliare ma proprio quando hanno capito che la prima battaglia era persa hanno subito pensato a come vincere la guerra. Hanno fatto quello che la Germania, l’Unione Europea, gli europei tutti non hanno fatto: hanno investito nei vaccini e non hanno badato a spese. A condizioni straordinarie si risponde con misure straordinarie. BioNTech è un vaccino tedesco e adesso porta il nome di Pfizer perché nessuno a Berlino si è sognato di investire sulla piccola start-up di Magonza. Lo stesso i francesi con Sanofi e l’Istituto Pasteur ai quali va ascritta soprattutto imperizia tecnico-scientifica oltre che organizzativa.

Gli italiani che pur possiedono il distretto farmaceutico più grande d’Europa, sono rimasti alla finestra, in attesa degli eventi. Macron lo ha ammesso: l’Europa ha capito tardi, ha trattato sul prezzo come se fosse una normale campagna vaccinale contro l’influenza. Non ha colto la portata globale del fenomeno, è rimasta chiusa in una politica sanitaria nazionale che è poi diventata la sua gabbia. Mario Draghi ha fatto tutte le sue mosse in campo sanitario, sempre coordinandosi con Bruxelles. È presidente del Consiglio italiano ma si muove da capo in pectore d’Europa. Ha bloccato per primo le 250 mila dosi di AstraZeneca verso l’Australia. Ha l’autorevolezza che manca ad Ursula von der Leyen ed è l’unico in grado di tenere unita l’Unione europea nel momento del bisogno. Angela Merkel ha perso il tocco. I traffici illeciti dei politici con le mascherine gridano allo scandalo e fanno della Germania un’Italia qualsiasi. Ma senza Draghi.

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