L’Ucraina mutilata e i governi perbene

Il conflitto russo-ucraino in corso da sette mesi (l’anniversario cade oggi) nelle motivazioni ideologiche ha somiglianze con quello che si combattè 30 anni fa in Bosnia e che ebbe come tragico epicentro l’assedio di Sarajevo. Allora lo scopo era la Grande Serbia, oggi la Grande Russia. Fin dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina era chiaro che l’obiettivo dell’esercito russo fossero i civili (30mila uccisi) e le infrastrutture ad uso civile (finora almeno 140mila edifici distrutti comprese 2.400 scuole e 138 ospedali, 12 aeroporti e 7 centrali idroelettriche danneggiati, fonte Onu).

Una brutalità per «ripulire» territori e poi annetterli. I referendum in corso nelle zone separatiste di Donetsk, Lugansk e nelle aree occupate di Kherson e Zaporizhzhia stabiliranno che quelle regioni fanno parte della Federazione russa, non l’autonomia. Referendum farsa, perché non sono quasi più abitate da ucraini non russofili. Un’idea diabolica quella di Putin: una volta sancita l’annessione, ogni attacco contro le quattro aree rappresenterebbe un oltraggio contro la stessa Russia e quindi un pretesto per minacciare l’uso di armi atomiche, come previsto dalla «dottrina nucleare» del Cremlino. Il primo a ricordarla è stato l’ex presidente e premier, attuale numero due del Consiglio di sicurezza Dmitrij Medvedev che già martedì mattina aveva scritto su Telegram che i referendum avrebbero ripristinato la «giustizia storica» e causato «una trasformazione geopolitica del mondo irreversibile». «Invadere il territorio della Russia è un crimine che, se commesso, giustificherebbe l’utilizzo di qualsiasi mezzo di legittima difesa», ha poi minacciato.

Invadere il territorio della Russia è un crimine, quello dell’Ucraina no. Eppure Cina, India e Turchia, non certo potenze filoatlantiche, chiedono a Putin di fermare la guerra perché l’onere è tutto sulle sue spalle. La mossa dei referendum potrebbe preludere ad un ultimatum a Kiev a negoziare e riconoscere le conquiste di Mosca o ad affrontare un nemico dotato di armi nucleari. Ma l’Ucraina ha già detto che a queste condizioni non ci sarà alcun negoziato: con i referendum perderebbe il 15% del proprio territorio, dove viene prodotto il 25% del Pil. La mossa del Cremlino ha anche il sapore della fretta e della difficoltà: è arrivato a reclutare detenuti in cambio dell’amnistia e ora pure i riservisti che protestano contro la guerra. Se non può vincere il conflitto con i militari, prova con la burocrazia truccata. Per dare un’idea di quanto sia grave la situazione, basti ricordare che alla mobilitazione (finora ha permesso di reclutare 10mila persone) in Russia si è ricorso solo tre volte nella storia recente (nel 1914, 1941 e 2022). Intanto in Italia Silvio Berlusconi ha compiuto la seconda scivolata sul conflitto in corso. La prima quando disse che per fermare la guerra era necessario che Kiev accettasse le condizioni di Mosca. La seconda l’altro ieri dagli studi televisivi di «Porta a Porta», dove ha pronunciato parole suonate come una giustificazione di Mosca: «Le truppe russe dovevano entrare e in una settimana sostituire il governo di Zelenksy con persone perbene e ritornare indietro. Invece hanno incontrato una resistenza imprevista e imprevedibile da parte delle truppe ucraine che poi sono state foraggiate con armi di tutti i tipi da parte dell’Occidente».

L’invasione, secondo il leader di Forza Italia, è stata sollecitata da una richiesta di aiuto dal Donbass. «Putin è stato spinto dalla popolazione russa, dal suo partito, dai suoi ministri a inventarsi questa operazione speciale» ha spiegato. Aggiungendo poi che non si spiega perché oggi le truppe occupanti si siano spinte in diverse zone dell’Ucraina: «Dovevano soltanto fermarsi intorno a Kiev». Già, non se lo spiega. Così come non spiega se invece il governo invasore è perbene. E cade nella semplificazione sulla storia del conflitto nel Donbass, dove Mosca ha avuto un ruolo nel sobillare le rivolte scoppiate nel 2014. Lo stesso anno per altro nel quale il Cremlino si annettè unilateralmente la Crimea senza che l’esercito ucraino sparasse un solo colpo.

E nel 1999 Putin era a capo del governo che avviò la repressione nel sangue dell’indipendentismo ceceno, ricorrendo a crimini di guerra (compiuti anche in Ucraina, come ha riconosciuto ieri l’Onu) raccontati in reportage e libri dalla giornalista russa Anna Politkovskaja. Pagò con la vita le sue denunce: fu uccisa a Mosca il 7 ottobre 2006. Governi perbene.

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