Ma le bombe
intelligenti
fanno stragi
di civili

Per rendere più accettabili i conflitti contemporanei combattuti dall’Occidente, sono stati coniati ossimori quali «guerra umanitaria» o «bombe intelligenti». «Danni collaterali» è invece la definizione cinica per catalogare le persone innocenti morte nei raid dal cielo. Ma la realtà prima o poi presenta il conto. Il «New York Times» ha pubblicato carte segrete del Pentagono dalle quali risulta che nelle campagne aeree statunitensi in Medio Oriente dal 2014 sono stati uccisi migliaia di civili, soprattutto bambini.

Nei conflitti in quella parte turbolenta del mondo gli Usa hanno perso almeno 6 mila soldati. A partire dall’amministrazione Obama, è stato quindi deciso di cambiare strategia: meno militari sul terreno e maggiore ricorso a incursioni aeree con droni controllati da computer a migliaia di chilometri di distanza. L’obiettivo nel tempo sarebbe stato quello di risparmiare il più possibile vite statunitensi grazie ai «progressi» degli armamenti in grado di colpire dall’alto e senza conseguenze per gli autori degli attacchi. Ma quegli strumenti «intelligenti» hanno dimostrato di non essere sempre tali, anche perché manovrati in ultima istanza da persone soggette a errori umani.

A morire non sono stati solo appartenenti a gruppi jihadisti o ribelli non alleati con la Casa Bianca, ma civili estranei ad ogni appartenenza bellica. Gli errori comportano anche un costo politico: è venuto meno il consenso agli americani laddove erano percepiti come liberatori da dittature (Iraq e Afghanistan) o dagli oppressori dello Stato islamico. I documenti rivelati dal «New York Times» scattano quindi la fotografia di una promessa tradita, per la quale nessuno ha pagato. L’analisi delle carte del Pentagono mostra infatti conclusioni auto assolutorie. In qualche decina di casi sono stati elargiti pagamenti ai familiari delle vittime. Ma la vita non ha prezzo e giustizia vorrebbe che i responsabili pagassero per gli errori. Le denunce su morti civili invece non sono quasi mai state seguite da indagini accurate: nei pochi casi in cui questo si è verificato - riporta il «New York Times» - le inchieste non sono state condotte sul posto o sentendo testimoni, ma con la semplice analisi dei video a disposizione, gli stessi filmati che avevano causato l’errore. E spesso a indagare erano gli stessi che avevano autorizzato o condotto il raid, e quindi i meno interessati a procedere e ad ammettere come, spesso, gli errori fossero legati a incomprensioni «culturali» fra chi era sul territorio e i militari dietro ai computer. Tutto si è così ridotto a dossier chiusi rapidamente, senza alcuna responsabilità. «Anche con la migliore tecnologia al mondo - ha detto il portavoce del Us central command, Bill Urban - possono capitare errori e noi cerchiamo di imparare dagli sbagli commessi». Ma è sospetta la tesi che si possa imparare senza sanzioni e un’autocritica approfondita.

E queste parole non bastano certo a consolare le famiglie delle vittime civili. Tra le quali c’è Giovanni Lo Porto, 39 anni, operatore umanitario qualificato con alle spalle esperienze in Centro Africa e ad Haiti, rapito da Al Qaeda nel gennaio 2012 in Pakistan e ucciso nell’aprile 2015 durante un’operazione dell’antiterrorismo statunitense al confine con l’Afghanistan. L’obiettivo del drone della Cia era un compound degli jihadisti dove l’italiano si trovava insieme ad altri ostaggi americani, tra i quali l’esperto di sviluppo Warren Weinstein, prigioniero dal 2011, anche lui morto nel raid. Il presidente Barack Obama dichiarò: «A nome degli Stati Uniti chiedo scusa a tutte le famiglie coinvolte». L’operazione fu un fallimento. L’inchiesta della Procura di Roma ha incontrato molti ostacoli ed è ancora in corso. Dopo oltre sei anni dal raid.

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