Ma il governo Draghi è la coperta dei partiti
Il ribellismo non paga

Il 3 agosto, con l’inizio del semestre bianco, è una data da segnare: ne vedremo delle belle o si procederà nella continuità del governo, in un Paese in cui l’emergenza sanitaria continua per decreto fino a dicembre? Semestre bianco significa che il presidente della Repubblica non può sciogliere le Camere nell’ultimo scorcio del suo mandato e quindi non può indire le elezioni. In teoria i partiti della maggioranza potrebbero alzare l’asticella delle loro pretese: scatterebbe il «liberi tutti» in una rincorsa a rompere la lealtà di coalizione. Questo scenario da anticamera dell’irresponsabilità è credibile? Le fibrillazioni continueranno, ma con il vincolo del principio di realtà: questo governo è privo di alternative che non siano il caos.

Il punto di partenza è che Mattarella, come ha già fatto capire con i suoi ultimi interventi, resta nella pienezza delle sue prerogative. Da costituzionalista rigoroso, non pare comunque disponibile all’ipotesi di un reincarico. La corsa per il Quirinale, a febbraio, è la madre di tutte le battaglie e il puzzle non è ancora cominciato e si dovrà individuare chi ha in mano il pallino, ossia il regista di un’operazione che determina gli equilibri istituzionali del Paese.

Sul piano statistico l’ultimo nome è stato Renzi. L’interrogativo essenziale di oggi è questo: chi si azzarda, chi ci mette la faccia nello staccare la spina all’esecutivo? In fondo il metodo di Draghi consente ai partiti di maggioranza l’illusione di poter mettere le loro bandierine. Mantengono una riserva propagandistica, non oltre però la soglia del «rischio calcolato» e della sostenibilità della coalizione. Lo si è visto con precisione sulla riforma della giustizia, dove per la prima volta il premier è stato costretto alla mediazione politica: il governo comunque ha tenuto sul terreno più minato, e sembra reggere nel dibattito in Parlamento. La tensione con Conte è soltanto raffreddata e per il momento l’ex premier s’è parcheggiato dentro confini limitati: non può sostenere con estrema felicità Draghi e tuttavia non può ingaggiare una guerriglia vietnamita con Palazzo Chigi.

Per certi versi la stessa parabola è frequentata da Salvini, quello che rischia di più nel tenere un piede nel governo e l’altro nelle piazze del Boh Vax. Per quanto sia stato incoronato futuro leader del centrodestra da un Berlusconi che sta ai margini, nel ruolo di cuscinetto fra due sovranismi (Lega e Fratelli d’Italia), il leader leghista vive un’estate di nostalgia: può sempre contare sull’emergenza immigrati, ammesso e non concesso che sia tale, ma si deve misurare con due problemi. Il primo è la traversata nel deserto di Giorgia Meloni che si sta completando a spese del bottino elettorale di Salvini, a sua volta in fase dimagrante. Il secondo è il contrasto con l’ala governista di Giorgetti, che aggrega componenti autorevoli della Lega (Zaia e Fedriga). Salvini scarta di tanto in tanto, strizza l’occhio agli antipatizzanti del governo, poi però si deve arrestare sulla linea rossa tracciata da Giorgetti: è la pax agostana post Papeete, qualche cerotto in attesa di capirne il punto di caduta.

Aspettiamo ottobre, con il voto nelle grandi città, e qui qualche tensione aggiuntiva va messa nel conto. Poi c’è la legge di bilancio e nel frattempo vediamo come si assesta il rompicapo del Monte dei Paschi, fonte di tanti guai per il Pd. I tempi sono stretti e il calendario non aiuta il gioco ribelle. Ricordando la dittatura del principio di realtà, che si riproporrà in modo imperativo per l’elezione del presidente della Repubblica: per via dei numeri necessari, Letta e Salvini saranno costretti a mettersi d’accordo. Ma qui siamo ancora lontani dalle premesse.

© RIPRODUZIONE RISERVATA