Made in Italy, investitori esteri all’offensiva

ITALIA. Tra il 2008 e il 2023 ci sono state poco meno di 3mila acquisizioni estere di aziende italiane.

Negli ultimi 10-15 anni l’Italia ha vissuto una vera e propria vendita (c’è chi parla di svendita) del proprio patrimonio industriale. Marchi che hanno fatto la storia del nostro patrimonio industriale, anche in termini di speranze generazionali, sono passati in mano straniera con una frequenza e un volume che suscitano riflessioni profonde sullo stato di salute e di tenuta del Paese. È un fenomeno multiforme che tocca il tessuto manifatturiero, il lusso, l’industria alimentare e che, al contempo, offre opportunità e costi, così come vantaggi e rischi. Stando ai freddi ma indicativi numeri, tra il 2008 e il 2023 ci sono state poco meno di 3mila acquisizioni estere di aziende italiane, per un controvalore complessivo di circa 200 miliardi di euro. Un fenomeno di proporzioni davvero rimarchevoli, che indebolisce in modo pesante la forza economica, ma anche socioculturale del nostro apprezzatissimo made in Italy.

Anche i grandi marchi

Il fenomeno è continuato anche negli anni più recenti: solo nel 2024, stando ad analisi di settore, gli investitori stranieri hanno acquisito oltre 400 imprese italiane. Un trend che avanza anche in ambito finanziario dove oltre la metà delle imprese italiane quotate è da tempo in mano straniera. Basti pensare a un colosso come la nostra o, forse, sarebbe il caso di dire la ex nostra Pirelli, simbolo dell’eccellenza italiana e del miracolo economico-industriale del nostro Paese degli anni ’50 e ’60. Nel 2015, China national chemical corporation (ChemChina) ne ha acquisito il 26,2%, fino a controllarne la maggioranza con un’Opa che l’ha portata ad acquisire quasi l’87% delle azioni. Altro marchio storico è il colosso della cantieristica nautica Ferretti Group (Riva, Pershing e Mochi Craft), oggi detenuto all’86,8% dal gruppo cinese Weichai Power. Addio anche all’idea romantica di sostare e rifocillarci durante i viaggi in automobile rimanendo nella grande casa Italia con Autogrill. Oggi, il gigante del catering autostradale e aeroportuale è passato sotto il controllo di Dufry, società svizzera attiva nel travel retail.

Più vantaggi o criticità?

Gli esempi potrebbero ahimè allungarsi numericamente in modo assai corposo. C’è da chiedersi se si tratti di un processo ineludibile legato all’omologazione merceologico-finanziaria dell’Occidente e, soprattutto, se il processo in atto generi più vantaggi che criticità. Molte imprese italiane, anche eccellenti, fanno sempre più fatica a reperire risorse adeguate a crescere o innovare. Un acquirente estero, con bilanci robusti, può offrire gli investimenti necessari. C’è poi una legittima ambizione imprenditoriale: quella di voler crescere e accedere a mercati esteri attraverso complessi processi e assetti più vocati all’internazionalizzazione. In settori come la meccanica o la chimica, ad esempio, la competizione globale richiede volumi, investimenti in ricerca e padronanza delle filiere, cosa che non sempre le piccole-medie imprese italiane possono sostenere da sole. A ciò si aggiunge un’evidente debolezza istituzionale in tema di politica industriale, incapace ad oggi di proporre una strategia di medio-lungo termine in grado di proteggere e valorizzare le nostre eccellenze industriali, grandi o meno grandi che siano.

Una duplice sfida

Secondo uno studio di Prometeia, le imprese italiane passate sotto controllo straniero hanno registrato un aumento dell’occupazione (+2 %), della produttività (+1,4 %) e del fatturato (+2,8 %). Se ciò è vero, c’è tuttavia da considerare che non sempre gli investitori stranieri mantengono le attività strategiche e produttive in Italia. La sfida improcrastinabile a cui il nostro Paese è chiamato è duplice: creare un ecosistema industriale che permetta alle proprie imprese di crescere internamente - riducendo la necessità di cessione - e definire una strategia di tutela economica che non demonizzi gli investitori esteri, ma rifletta anche l’interesse nazionale a preservare know-how, posti di lavoro e identità produttiva. Negli anni a venire, il vero banco di prova non sarà se vendere o non vendere, ma se vendere meglio, ossia selezionare partner che contribuiscano non solo al capitale, ma anche alla crescita sostenibile del sistema Italia.

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