Mes, il senso smarrito e le domande rinviate

ITALIA. Oggi Giorgia Meloni non risponderà alle domande dei giornalisti nella tradizionale conferenza stampa di fine d’anno del presidente del Consiglio: per la seconda volta l’incontro è stato rinviato (doveva già svolgersi il 21 dicembre) a causa del perdurare dello stato influenzale della premier.

Dunque, non ci sarà modo di chiederle come risponde alle critiche che direttamente o indirettamente le sono piovute addosso dall’Europa e dai partner per il «no» del Parlamento italiano alla ratifica della riforma del Mes. Né potrà esprimersi sulle ipotesi di possibili ritorsioni europee che potrebbero arrivarci addosso, per esempio un «Mes a 19», cioè uno scudo per le crisi finanziarie degli Stati e delle banche ristretto ai Paesi che hanno firmato, cioè tutti tranne noi; o anche un ripensamento sulle possibili aperture comunitarie alla solidarietà di fronte all’emergenza migratoria, o altro ancora, vai a sapere cosa si inventano a Bruxelles francesi tedeschi e olandesi, cioè quelli che hanno confezionato il Patto di Stabilità cui Meloni ha dovuto dire, per quanto obtorto collo, un sì molto sofferto. «È un patto di compromesso, vedremo se in alto o in basso» spiegava criptico ieri il ministro Giorgetti (che lo ha dovuto digerire per primo) parlando in Commissione alla Camera per il rush finale della manovra di Bilancio. In assenza della presidente del Consiglio, è su di lui che in queste ore si concentrano le domande e le curiosità dei giornalisti. Per esempio era sembrato, dalle prime parole borbottate davanti ai microfoni subito dopo il voto contrario della Camera sul Mes, che lui, Giorgetti, avrebbe votato a favore ma che «non era aria» e che avrebbe deciso, sempre lui e in piena libertà, se dimettersi o meno (come gli continua a chiedere l’opposizione).

Ma ieri in Commissione tutto quel rammarico del ministro è sembrato svaporare: Giorgetti anzi ha rivelato di aver sempre avvisato i suoi colleghi ministri finanziari che in Parlamento c’era una larga maggioranza contraria al Fondo Salva Stati e che quindi non c’era da illudersi; quanto alle intenzioni personali, bocca cucita. A metà mese Giorgetti dovrà però usare qualche parola di più con i suoi colleghi dell’Eurogruppo e dell’Ecofin per due riunioni che si preannunciano piuttosto tese.

Chi è in subbuglio è Forza Italia che, per fedeltà al Ppe, avrebbe dovuto votare a favore del Mes, e invece ha ripiegato su una ambigua astensione che molto poco è piaciuta a Berlino e a Bruxelles perché considerata un cedimento alle ragioni anti-europeiste di Salvini e alle contraddizioni di Meloni al quale, pur di non lasciare all’alleato-competitore leghista un facile argomento di propaganda elettorale, si è acconciata a fare il voltafaccia e a ordinare il «no» alle sue truppe, fino a quel momento convinte che alla fine da palazzo Chigi sarebbe arrivato un segnale distensivo nei confronti dell’Europa.

Di fronte a questi giochi tattici tra Meloni e Salvini tutti concentrati sul risultato elettorale di giugno, Antonio Tajani – cioè colui che ha deciso per l’astensione del partito che fu berlusconiano – è stato messo sul banco degli accusati: «troppo accomodante con leghisti e Fratelli d’Italia». La risposta del ministro degli Esteri è stata persino ovvia: «Se avessimo votato sì, ci sarebbe stata la crisi di governo». Difficile dargli torto, ma la realpolitik ha scarsa fortuna di questi tempi, prevale in genere lo sventolio delle bandiere, e il Mes sin dall’inizio è stata una bandiera tanto per il centrodestra che per i grillini, al punto – come spiega l’ex ministro Padoan - che si è del tutto smarrito il senso di uno strumento di difesa dalle crisi finanziarie (che dovrebbe essere l’incubo di un Paese che ha il quinto debito pubblico del mondo).

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