Messaggio della Merkel
all’Europa smarrita

C’è qualcosa di grandemente e potentemente simbolico nella visita che Angela Merkel ha compiuto a ciò che resta, a imperitura memoria per gli uomini di ogni Paese del mondo, dell’universo concentrazionario di Auschwitz, il campo di sterminio che comprendeva anche il lager di Birkenau e il campo di lavoro di Monowitz, in Polonia. E non solo per la ragione più evidente: mettere per l’ennesima volta la Germania intera di fronte al proprio passato nazista, allo sterminio degli ebrei, alla distruzione di grande parte del continente a causa del sogno folle del Terzo Reich.

Un’assunzione di responsabilità che è certo doverosa, ma può sembrare scontata solo a chi non capisca quanto possano essere difficili certi esami della coscienza collettiva di una nazione. Non è un caso se l’ultimo precedente risale al 1995 (cancelliere Helmuth Kohl) e se solo ora la Merkel, al vertice della politica tedesca dal 2005, ha osato questo passo. Nessuno peraltro ha dimenticato quanto successe a Willy Brandt, poi premio Nobel per la Pace, nel 1970. In occasione della firma di un trattato tra Germania Federale e Polonia a Varsavia, il cancelliere si inginocchiò davanti a un monumento che ricordava la rivolta del ghetto di Varsavia contro i nazisti occupanti. Al ritorno in patria fu accolto da feroci polemiche e, nel 1972, sottoposto a un voto di sfiducia da cui si salvò per due soli voti. Sono passati i decenni ma certi precedenti pesano, soprattutto in una Germania come quella odierna, preoccupata per l’aggressiva risorgenza di gruppi e gruppuscoli non solo di destra estrema ma addirittura filo-nazisti.

C’è però, nella visita della Merkel, un simbolismo più sottile e sfaccettato, che rende bene l’atmosfera di questi nostri tempi. Con la sua visita, intanto, la cancelliera prende su di sé e sulla Germania anche le responsabilità altrui. Non paragonabili a quelle tedesche ma comunque reali e verificate. Nel febbraio del 2018 il Senato della Polonia ha dato via libera alla legge che punisce anche con tre anni di carcere chi definisca «polacchi» i campi di sterminio costruiti dai nazisti durante l’occupazione. Una legge controversa, che secondo molti ha soprattutto lo scopo di negare la partecipazione di cittadini polacchi alla persecuzione e allo sterminio degli ebrei. Non a caso Israele (che pure ha riconosciuto a 6.700 polacchi il titolo di «giusto delle nazioni») protestò con grande vigore e gli Usa espressero la loro «preoccupazione» in merito alla legge.

E poi non dobbiamo dimenticare ciò che le cronache politiche ci raccontano ormai ogni giorno, ovvero le gravi difficoltà, per non dire il declino, dell’Europa che proprio a partire dal secondo conflitto mondiale e dal peso enorme della Shoah ha definito i propri valori e le proprie aspirazioni. Furono i soldati dell’Armata Rossa sovietica a liberare Auschwitz e a occupare per primi Berlino, tracciando con la loro avanzata i confini del mondo bipolare durato fino al 1989 e che sembrava superato per sempre con l’estendersi su scala continentale dell’Unione Europea. Oggi, invece, l’incertezza regna sovrana. Nei rapporti tra l’Europa e gli Usa, nelle relazioni tra gli stessi europei, negli assetti interni ai singoli Paesi d’Europa, in molti dei quali regna l’allarme per un ritorno del fascismo (per non parlare dell’antisemitismo, dalla Francia alla Germania stessa) senza peraltro riuscire a definire i contorni dell’eventuale minaccia. È come se la Merkel, reduce da una riunione dei Paesi Nato che ha evidenziato tutte quelle divisioni, con la visita ad Auschwitz avesse voluto ricordarci da dove veniamo tutti noi europei e il lungo cammino compiuto da allora. In una parola: un ritorno alle basi, un duro ma necessario ripasso per un’Europa smarrita come non mai.

C’è infine un ulteriore dato simbolico, legato alla persona della cancelliera, che merita comunque rispetto. Angela Merkel si è rivolta al passato oscuro del proprio Paese proprio mentre si appresta a uscire di scena, a lasciare la grande politica che a livello nazionale e continentale ha dominato per una lunga e importante stagione. Può darsi che questo sia il frutto della sua proverbiale accortezza: nessuno può contestare chi sta già per andarsene. Ma ci piace pensare che, al contrario, la Merkel abbia pensato che il suo lavoro per cambiare la Germania e conservare l’Europa non fosse completo, non fosse davvero degno senza Auschwitz. E abbia voluto provvedere prima che fosse troppo tardi.

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