Natalità, urgono nuove politiche

italia. Una goccia di speranza in un mare piatto che non mostra segnali di cambiamento. La piccola ma significativa onda «family friendly» dei Comuni dell’Alta Val Seriana in favore della natalità è encomiabile. È il grido di un territorio, quello montano, che unisce alle criticità culturali ed economiche condivise con il resto d’Italia, anche le difficoltà ambientali.

I paesini ai piedi delle vette, negli anni progressivamente spolpati dei servizi essenziali, faticano a garantire livelli minimi di vivibilità per chi sceglie di costruire una famiglia: scuole chiuse, carenza di luoghi di lavoro a misura di genitori, presidi sanitari lontani e municipi sempre più in ristrettezze economiche. Tutte mancanze che farebbero desistere anche la coppia più motivata. E proprio per questo, l’«operazione Alta Val Seriana» non va lasciata sola. Il sasso lanciato nello stagno della denatalità dovrebbe produrre cerchi talmente ampi da coinvolgere tutta la Bergamasca. Certo il tema è senz’altro più ampio e non c’è più tempo perché possa essere relegato esclusivamente a oggetto di dibattito locale. Giusto fare opinione, ma urge un’azione strutturata nazionale perché ormai i numeri parlano chiaro: siamo di fronte a una caduta in picchiata.

Una discesa che non è dell’altro ieri ma è datata Anni ’70. Da lì in avanti si è innestata una cultura che pian piano ha eroso il modello della famiglia tradizionale e numerosa in favore di un’emancipazione individualista. Si è spinto su quelle «conquiste sociali» che sono difficili da conciliare con la natalità. C’è quindi poco da sorprendersi se oggi ci ritroviamo con una popolazione in continua diminuzione e con prospettive drammatiche per i prossimi anni, sia dal punto di vita sociale sia da quello della tenuta economica, perché pochi nati significano anche pochi lavoratori. E pure pochi imprenditori, ossia chi produce lavoro. Praticamente un cane che si morde la coda. Su questo aspetto è preoccupante anche il report della Camera di Commercio di Bergamo che trovate nelle pagine di economia: negli ultimi dieci anni sono calate le imprese giovanili della nostra provincia. Un ulteriore segnale d’allarme. Nemmeno i flussi migratori, che hanno «congelato» il problema demografico per una ventina d’anni offrendo nuova forza lavoro, sono più in grado di garantire il ricambio della popolazione.

Il mutamento culturale avviato, e ormai compiuto e sedimentato, unito a un’insicurezza economica e relazionale, non agevola un cambio di passo. Inevitabile, tra i giovani, una carenza di progettualità. Addirittura, come nel dibattito politico, anche su quello etico la nostra società è divisa in due fazioni, chi è favore dei figli e chi no, una contrapposizione dannosa per tutti e che non ha alcun senso. Siamo uno strano Paese che invecchia preferendo un cane o un gatto a un figlio. I trentenni non pensano a fare figli perché spesso non sentono più la necessità oppure si lasciano sovrastare dalla preoccupazione economica (che esiste, nessuno lo nega), così aumenta la tendenza a rimandare. Eppure bisognerebbe ragionare sul fatto che non si può fare tutto a qualsiasi età. E soprattutto che un figlio non va messo al mondo quando si vuole, non può far paura, non è una limitazione di libertà, non è una sfortuna o una rinuncia. Dare respiro a una creatura, anzi, non a una, ma alla tua creatura, è un gesto che dà un senso completo alla vita. Dobbiamo quindi chiederci se vogliamo un mondo egoista che si spegnerà perché abbiamo pensato che chi lo abita basta a se stesso o se abbiamo ancora un barlume di umanità che desidera dare una chance a chi potrebbe venire dopo di noi. Certo bisognerebbe anche lasciare in eredità un ambiente accogliente capace di sostenere chi sceglie il dono e, allo stesso tempo, la responsabilità di un figlio.

Fino a oggi abbiamo sentito riecheggiare il monito sull’urgenza dell’impegno per la natalità, ma niente di più. O forse poco più, come l’assegno unico per i figli. Però non si è vista una vera e propria riforma - ad esempio fiscale - in favore della famiglia con figli, si è continuato a rinviare pensando che i problemi fossero altri e che le coperture finanziare andassero deviate altrove. Un’insensibilità che oggi paghiamo cara e che pagheremo ancor più cara se non ci sarà un’inversione di tendenza. Servono azioni concrete che forniscano strumenti ai giovani in grado di riportare equilibrio tra la bellezza di mettere al mondo un figlio e il costo della vita. In Italia c’è una Regione - il Trentino-Alto Adige - che ha investito sulla natalità e gli effetti positivi ci sono. Guarda caso è a Statuto speciale, con tutto quello che ne consegue a livello economico. Forse è arrivato il momento che in Italia le politiche per la natalità diventino «a Statuto speciale», visto che è tra i Paesi che spendono meno per politiche di welfare familiare. E non è solo questione di finanziare la genitorialità, ma di investire in un nuovo modello economico, sociale ed educativo che restituisca il valore del tempo a chi desidera crescere e seguire un figlio. Il tema è talmente drammatico che Plasmon, nota azienda di biscotti per bimbi, ha lanciato l’operazione #Adamo 2050 (l’ultimo bambino in Italia) in vista degli Stati Generali della Natalità che si terranno a Roma il prossimo 11 e 12 maggio. Una campagna in collaborazione con la Fondazione per la Natalità. Che sia un’azienda di biscotti a sollevare un tema così fondamentale per il futuro, e non lo Stato, la dice lunga. Eppure dovrebbe ormai essere chiaro a tutti che senza figli, ragionando solo sulla tenuta del Paese, il Pil crollerà, così come il sistema pensionistico e sanitario. Forse non ci siamo ancora resi conto che senza culle il Paese è destinato a dissolversi.

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