Nella Brexit le radici profonde del disastro

Il commento. Abbiamo assistito alle patetiche dimissioni della premier inglese Liz Truss, rimasta in carica solo sei settimane, che se n’è andata dicendo di non poter applicare il suo programma quando persino i compagni
di partito l’hanno messa alla porta temendo che lo facesse. Abbiamo ripensato alla sciocca copertina del giornale economico inglese Economist che, con una Truss addobbata di spaghetti e pizza, in pratica diceva che il Regno Unito stava facendo la fine dell’Italia. E allora diciamoci la verità: chi non è stato tentato da una sonora pernacchia alla Totò?

Non solo per l’ingiustificato senso di superiorità (anche se l’Economist è di proprietà italiana) ma anche perché il paragone è del tutto improprio. È vero, sia il Regno Unito sia l’Italia hanno cambiato quattro primi ministri in sei anni. Ma a Roma si sono avvicendati Renzi, Gentiloni, Conte e Draghi, mentre a Londra si sono succeduti David Cameron, Theresa May, Boris Johnson e la Truss, due dei quali sono stati un indubbio disastro. Della Truss, si è visto. Cameron, non dimentichiamolo, fu con Sarkozy l’artefice della distruzione della Libia nel 2011 (impresa poi condannata dallo stesso Parlamento inglese) e, non contento, il promotore nel 2016 del referendum che, contro tutte le sue aspettative, sancì l’uscita del Paese dalla Ue con la Brexit. La differenza con gli ex premier italiani, semmai, è che i nostri sono ancora molto attivi nella politica nazionale (Renzi e Conte) o in quella internazionale, con Gentiloni commissario europeo e Draghi chissà cosa ma indubbiamente qualcosa. I loro colleghi inglesi sono spariti da tutto, e solo Johnson volteggia alla ricerca di una improbabile rivincita.

La Truss, in realtà, era già in partenza un personaggio minore. Si era fatta notare prima per l’attivismo al ministero del Commercio e poi per la grinta sfoggiata in quello degli Esteri, ai primordi della drammatica crisi con la Russia, ma era arrivata al vertice soprattutto in virtù di una crisi tutta interna al Partito conservatore, spaventato dal movimentismo individualista e scoordinato di Boris Johnson. La toppa, come si è visto, è stata peggiore del buco. E non è un caso se ora, per sostituire la Truss, si fanno i nomi dell’attuale ministro del Tesoro e delle Finanze (per gli inglesi il Cancelliere dello Scacchiere) Jeremy Hunt, chiamato in tutta fretta a smantellare la catastrofica riforma del predecessore Kwasi Kwarteng, licenziato dopo 38 giorni, o di Rishi Sunak, che occupò la stessa carica per due anni con Boris Johnson. Entrambi in politica da tempo, con esperienze (più Hunt di Sunak) di Governo, ma ancor più noti per le precedenti carriere nel mondo degli affari, che hanno fatto di Hunt il più ricco tra i ministri inglesi e di Sunak un finanziere di successo. Quanto di più vicino alla figura del «tecnico» la tradizione inglese possa accettare.

A un livello appena più profondo, però, le attuali traversie del Governo inglese si spiegano con l’eccesso di aspettative, in chiave nazionalistica, generate dalla Brexit sostenuta dal Partito conservatore. Il Regno Unito, a dispetto delle previsioni di molti, non è crollato con l’uscita dall’Unione Europea, anche perché in realtà un piede fuori l’aveva sempre tenuto, a partire dalla strenua difesa della sterlina. Ma è ben lungi dal riuscire a giocare quel ruolo di media potenza internazionale a cui aspirava una volta liberatosi da quelli che considerava i lacci della burocrazia di Bruxelles. Armare l’Ucraina, opporsi alla Russia e manovrare con i Paesi più filoamericani della Ue è un conto. Navigare i marosi di una crisi epocale che mette in difficoltà economie considerate solidissime fino a poco tempo fa, da quella tedesca a quella americana a quella cinese, è tutt’altra faccenda. E non è un problema di stabilità, altro concetto caro all’Economist: governa da dodici anni il Partito conservatore, la stabilità dovrebbe essere garantita. E invece…

Bisognerà ora seguire gli eventi. Il Partito laburista guidato da Keir Starmer chiede elezioni anticipate, forte di un gradimento che, a dar retta ai sondaggi, oggi lo vede di trenta punti avanti i conservatori. Non è detto che le ottenga, né che abbia la ricetta giusta per trascinare il Paese fuori da un pantano che rischia di immobilizzarlo a lungo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA