Oltre il voto la questione giustizia non è risolta

Un viaggio breve e in sordina, in una cornice indebolita, quello dei referendum sulla giustizia che si svolgono domani in coincidenza con il voto in quasi mille Comuni. Scarsa la copertura mediatica, anche perché i referendari si sono svegliati tardi e perché l’attenzione è altrove: guerra in Ucraina, inflazione, post Covid. Essendo abrogativi di norme vigenti, i referendum per essere validi devono raggiungere il quorum: la metà degli aventi diritto al voto più uno.

Impresa difficile, tanto più che i 5 quesiti sono inevitabilmente scritti in giuridichese, complicati anche per gli addetti ai lavori: il quesito 3 ad esempio, 1.067 parole con l’obiettivo di separare le funzioni tra pm e giudici, è il meno comprensibile. Il referendum, che ha un taglio garantista, intende cioè riaffermare il principio costituzionale della non colpevolezza dell’imputato fino alla condanna definitiva, è stato promosso da Radicali e Lega (il cui bagaglio storico in materia è di altra natura), è sostenuto da FI, solo in parte da FdI (2 «no» all’abolizione della legge Severino e alla limitazione delle misure cautelari) e dall’area centrista. Contrari i grillini, mentre il Pd è per il «no» ma ha lasciato libertà di voto: qui il «partito dei sindaci» è schierato in prevalenza per abrogare la legge Severino che disciplina i casi di incandidabilità, sospensione e decadenza dei politici dalle cariche elettive. Questa norma anticorruzione varata nel 2012 dalla maggioranza del governo Monti, quindi anche dal centrodestra, era costata a Berlusconi la decadenza dalla carica di senatore e riguarda in particolare gli amministratori locali per i quali è prevista la sospensione dalla carica anche dopo una condanna non definitiva. I referendari chiedono che l’applicazione della misura dell’incandidabilità sia affidata alla discrezionalità del giudice e non più automatica.

L’altro quesito d’impatto sulla vita delle persone è l’esclusione del carcere preventivo per il pericolo di reiterazione del reato. I restanti tre referendum si riferiscono all’ordinamento giudiziario, andando a scavalco della riforma Cartabia che interviene su questi temi e che due giorni dopo la consultazione ha il passaggio al Senato. La riforma della Guardasigilli è stata duramente contestata con lo sciopero dei magistrati, è ritenuta blanda sulle garanzie dall’avvocatura, mentre a nostro avviso rappresenta un ragionevole compromesso. Il referendum è trasversale per sua natura, e intende supplire alle manchevolezze del Parlamento. La logica della democrazia diretta non segue quella delle altre votazioni: l’andare al seggio o meno può significare un indirizzo verso il consenso o il dissenso. È comunque un appuntamento da non trascurare, perché la questione giustizia, lontana dall’essere risolta, va al cuore del funzionamento di una democrazia. Si può, e si deve, discutere della proprietà di uno strumento chirurgico («sì» o «no») che interviene su un corpo delicato e complesso. Non si può però ignorare il malessere, il segnale, la «scossa» che i referendari intendono dare, nonostante tutte le perplessità. In un’Italia segnata dal caos legislativo (si calcola ci siano oltre 30mila figure di reato) e dall’essere uno dei Paesi europei con il maggior numero di detenuti in custodia cautelare, si ripropone il problema di sempre: il perimetro della reciproca autonomia di magistratura e politica, il punto d’equilibrio fra presunzione d’innocenza da una parte e protezione della comunità e delle vittime dall’altra. All’appuntamento referendario la magistratura arriva in difesa e, pur affollata da professionisti seri che lavorano con coscienza, paga errori propri. Il caso Palamara ha scoperchiato una degenerazione correntizia e non c’è stata autoriforma. Ha vacillato fra veleni pure la Procura di Milano, storica roccaforte della legalità. Lo stesso duro confronto fra toghe che denunciano l’attacco alla loro indipendenza, e l’avvocatura che rilancia le ragioni del giusto processo, ha pochi precedenti. Il populismo penale di chi cavalca una certa opinione pubblica e il circo mediatico-giudiziario della giustizia spettacolo hanno poi contribuito alla deriva.

La magistratura attraversa la più grave crisi di credibilità della sua storia e questo deve preoccupare. Conclusa la fase eroica della lotta al terrorismo e alla mafia, e spentosi il «consenso di popolo» della stagione di Mani pulite, è iniziata la «guerra dei 30 anni». «Dal ’92 magistratura e politica - ha scritto l’ex presidente della Camera Violante nel libro con Stefano Folli, “Senza vendetta”, edito dal Mulino - hanno progressivamente perso la consapevolezza del proprio ruolo. Il degrado è stato progressivo. Tanto per la magistratura quanto per la politica è diventata preponderante la dimensione del potere rispetto a quella del servizio. Il prezzo è stato pagato dai cittadini». Occorre correggere lo squilibrio (senza vendette) tra una politica sempre più debole e una magistratura che negli anni ha accentuato il suo potere. Serve una nuova stagione del dialogo, avviare un processo di riconciliazione sulle questioni essenziali della convivenza civile. Sapendo che la qualità di una democrazia passa anche dalle corrette relazioni fra magistrati, avvocati, politici, cittadini. E che non è mai tardi per l’autocritica: per tutti, media compresi.

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