Ora il difficile
Identità incerte

Quando gli italiani rispondono all’appello del voto in modo significativo, specie nell’esordio elettorale dell’era Covid, è sempre una buona notizia, perché segnala una responsabilità collettiva. Ed è quel che è successo con il referendum sul taglio dei parlamentari e le urne in 6 Regioni. Il referendum costituzionale è stato partecipato pur non essendo stato preceduto da un dibattito intenso e realmente trasparente sulla sua natura, mentre le elezioni territoriali sono state appesantite da un carico politico ultimativo: per le sorti del governo e della segreteria Zingaretti, per la competizione a destra fra Salvini e Giorgia Meloni, per il rilancio in grande stile dell’opposizione.

Il quadro però che si delinea non sembra annunciare la spallata contro l’esecutivo o cataclismi per la maggioranza. Il centrodestra resta maggioritario nel Paese e dimostra che quando si presenta unito vince, e anche nettamente: quello di Zaia in Veneto è un successo annunciato ma pur sempre un plebiscito per il Doge, le Marche passano di mano e non è poco, Toti in Liguria si rafforza. Tuttavia alla destra è mancato l’ultimo miglio, quello che fa la differenza, il valore aggiunto: senza Toscana, per il suo carico simbolico di ultimo fortino rosso, e Puglia in libera uscita, i conti a destra non tornano.

Salvini, facendo indirettamente un favore a Zingaretti, ha investito tutto sulla Toscana, sul piano del recupero d’immagine personale in un periodo per lui difficile e nel quadro della lunga marcia di smarcamento dal recinto padano verso il «partito degli italiani». Da tempo il Capitano eccede nell’attacco per poi ripiegare facendo buon viso a cattiva sorte, salvo dover constatare lo scarto fra le attese che suscita e le risposte dei suoi elettori. La Meloni, in una fase di grazia inattesa per lei, cercava lo sfondamento con Fitto in Puglia nella prospettiva dello spariglio di leadership a destra. Le due Regioni contendibili, specie la Toscana, non cambiano casacca: il Pd, dato ciclicamente per moribondo, potrebbe confermarsi la vera alternativa alla destra convivendo con un grillismo balcanizzato, in caduta libera nel consenso, guardandosi inoltre da un renzismo corsaro.

Il referendum gioca una sua partita parallela e ci sarà un’onda lunga. Il Sì s’è affermato in modo tanto netto quanto scontato, consapevole che con la direttiva grillina ha esaurito l’armamentario populista di facile presa. Dovrà integrare le preoccupazioni del No, espresse in numero non trascurabile, spendendole in chiave riformatrice. Ci saranno equivoci da superare, occorrerà metter mano da subito alla riforma elettorale, cosa non indolore, per riequilibrare un Parlamento smagrito rispetto alle altre istituzioni: se sarà legge proporzionale, già si annuncia battaglia. Aspetti, questi, che non infiammano gli animi popolari, eppure determinano a tavolino vincitori e vinti. Prima c’è da chiarire la prospettiva del successo del Sì e la sua ricaduta nella maggioranza. I 5 Stelle rivendicano certo a ragione il loro successo, ma Di Maio ha personalizzato la vittoria dando l’idea di riprendersi la guida del movimento. Nel farlo, ha coperto il fatto che i suoi non solo non hanno toccato palla nelle Regioni, neppure sono scesi in campo. Il Pd rilancia in chiave consensuale, cosciente del suo Sì stiracchiato, dei tanti No fra padri nobili e non solo, e del percorso accidentato delle riforme: promesse da mantenere, dopo esperienze sfavorevoli. Zingaretti e i suoi, soprattutto quelli disposti all’alleanza organica con le tribù grilline, dovranno poi constatare che i dem quando vincono, vincono da soli e quando si alleano con i 5 Stelle (Liguria) perdono. A conti fatti, quale sarà la morale del centrosinistra, ammesso e non concesso che sui territori esista una coalizione di questo segno? Dopo le Regionali resta appunto l’ambiguità irrisolta del rapporto fra Pd e grillini: la schizofrenia fra il movimento e il partito di governo, un sodalizio balcanizzato e acefalo da un lato e un Partito democratico dall’identità incerta dall’altro. Con le ricadute sul governo Conte, il premier ibrido e casuale, apparentemente stabile nella sua instabilità. L’altra novità riguarda la nuova stagione dei governatori, legittimati dal consenso popolare: il sempreverde Zaia, il Toti da ultima generazione dei moderati, i De Luca e gli Emiliano irriducibilmente eccentrici. Compreso nel gruppo l’emiliano Bonaccini, outsider dato in ascesa. Regioni, che sono parte in causa nella politica d’indirizzo delle risorse europee del Recovery fund, dopo essere state una spina nel fianco del governo nella gestione della pandemia. Gli elettori hanno dato prova di maturità, ora tocca al governo, che non ha più alibi nella tattica dei rinvii, e anche alle stesse opposizioni concorrere a ritessere un brandello di condivisione, almeno sulle riforme costituzionali

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