Pace, una scelta sempre rivolta al futuro

La pace è sempre al futuro: la pace appartiene al mondo della speranza. Salmo 85: «Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno».

La speranza è la più grande virtù, perché è difficile - ma necessario - vedere come vanno le cose e sperare che, nonostante tutto, domani potranno andare altrimenti. La speranza esige di alimentarsi alla sorgente del desiderio ed è una sorgente che tende ad esaurirsi, come fosse provata da una siccità che rende arida la terra, sempre meno irrigata dall’acqua buona della speranza. Dobbiamo constatare che più che il desiderio di pace, domina il desiderio di «starsene in pace» teso ad alimentare l’indifferenza più che la speranza. La guerra che si combatte in Ucraina ormai da mesi, con decine di migliaia di vittime, milioni di profughi, efferate violenze che non risparmiano nessuno, distruzioni di intere città, villaggi, infrastrutture di ogni tipo, sembra penetrare nel sottosuolo delle nostre esistenze, più per le conseguenze che contribuisce a determinare sul nostro tenore di vita, che per ciò che rappresenta per milioni di esseri umani.

Del resto, avviene così per le decine di «guerre periferiche» rispetto ai nostri confini; quelle guerre che disegnano la drammatica «terza guerra mondiale a pezzi»: un’immagine efficace di Papa Francesco. Non può essere il termometro della paura ad alimentare il desiderio e quindi la speranza di pace, ma un’interiore e condivisa convinzione, particolarmente esigente ed impegnativa nel momento in cui nutriamo la consapevolezza che la pace è un bene complessivo, le cui condizioni impegnano ciascuno e la comunità nel suo insieme. Sopra una parete del Palazzo delle Nazioni Unite a New York è stata scolpita la frase del profeta Isaia: «Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra».

Le parole del profeta, avvertite come programmatiche all’indomani del secondo conflitto mondiale, con il tempo sembrano sbiadite, come appaiono le grandi organizzazioni che le dovrebbero rappresentare: una ragione di questo indebolimento è certamente la rarefazione della coscienza che la pace appartiene al futuro, nella misura in cui in ogni presente, ciascuno di noi contribuisce a creare, coltivare e difendere le condizioni della pace: allora la pace non sarà il frutto della paura e tanto meno dell’indifferenza, ma l’esito di una speranza non consegnata alla fatalità.

Italo Calvino scriveva: «Ci sono due modi per salvarsi dall’inferno. Uno è facile e praticato da molti: assuefarsi all’inferno, fino a diventare, senza accorgersi, inferno. L’altro è più difficile: cercare nell’inferno ciò che non è inferno, farlo crescere e durare». Siamo esposti alla tentazione di «diventare inferno»: la tentazione di rassegnarci alla guerra, alla violenza, al sopruso, all’ingiustizia, alla menzogna, all’odio, allo sfruttamento da parte del più forte. Ma le generazioni che hanno vissuto questo ampio arco di pace in Europa sono esposte ad una tentazione ancor più pericolosa: quella di ritenere la pace una condizione «pacifica», «naturale», «scontata».

C’è un’altra insidia alla pace reale, che si annida nella timorata, progressista convinzione che il progresso sia già realizzato, che la civiltà abbia vinto la barbarie e che la guerra, almeno nel nostro mondo, sia stata debellata, come la febbre gialla o il vaiolo lo sono stati dai vaccini. La guerra non si nomina, neanche quando c’è; non la si dichiara, neanche quando si gettano le bombe. In realtà la pace è una scelta, una scelta fondamentale e permanente e dunque una virtù: un abito della mente, del cuore, delle mani, dello spirito. Suonano così le parole di Mattatia ai suoi figli: «Ora dominano superbia e ingiustizia, è il tempo della distruzione e dell’ira rabbiosa. Ora, figli, mostrate zelo per la Legge e date la vostra vita per l’alleanza dei nostri padri».

Per alimentare e difendere la pace bisogna esercitarsi alla pace, nutrendo una mentalità di pace. Abbiamo udito dall’Apostolo: «Comportatevi in modo degno del Vangelo di Cristo». San Giovanni XXIII, nel clima della crisi cubana durante la «guerra fredda», ha offerto al mondo la Pacem in terris, con la quale ha progettato un «quadrilatero della pace», indicando ai costruttori di pace le quattro pietre angolari da posare. La prima è la verità, che richiede il rispetto della dignità di ogni persona e l’eliminazione di ogni razzismo. La seconda è la giustizia, che unisce il riconoscimento dei diritti all’adempimento dei doveri. Il principio della giustizia, dice il Santo Papa, richiede che i contrasti siano affrontati attraverso la «reciproca comprensione».

La parola di Gesù nel Vangelo «Beati gli operatori di pace» è un appello sempre attuale, che vale per ogni generazione. Non dice «Beati i predicatori di pace»: tutti sono capaci di proclamarla, anche in maniera ipocrita o addirittura menzognera. «Beati gli operatori di pace», cioè coloro che la fanno. Fare la pace è un lavoro artigianale: richiede passione, pazienza, esperienza, tenacia. Beati sono coloro che seminano pace con le loro azioni quotidiane, con atteggiamenti e gesti di servizio, di fraternità, di dialogo, di misericordia… Questi sì, «saranno chiamati figli di Dio», perché Dio semina pace, sempre, dovunque; nella pienezza dei tempi ha seminato nel mondo il suo Figlio perché avessimo la pace! Fare la pace è un lavoro da portare avanti tutti i giorni, passo dopo passo, senza mai stancarsi. (Papa Francesco)

La terza pietra angolare è l’amore, la solidarietà operante che sostiene gli altri due princìpi con la cooperazione in vista del bene comune. Nella solidarietà, secondo San Giovanni XXIII, sarebbe possibile mantenere l’equilibrio tra popolazione, terra ed economia, potrebbe essere affrontato il fenomeno dei profughi, sarebbe immaginabile intraprendere la via del disarmo sia dell’apparato bellico sia dei cuori.

La quarta pietra angolare è la libertà, che richiama ogni comunità politica alla responsabilità di lasciare autonomia alle altre di essere il primo artefice della propria crescita. In questa prospettiva, fare comunità, costruire comunità è la fondamentale condizione per la pace. Si tratta di superare un «noi» esclusivo e lavorare per un «noi allargato», particolarmente a coloro che sono emarginati perché scartati, inutili e alla fine pesanti o addirittura pericolosi: dalle persone in condizioni di non autosufficienza, a quelle limitate nella libertà, da coloro che cercano nel nostro Paese una vita migliore a quanti scivolano in condizioni di povertà e con frequenza vengono indicati come colpevoli. Si tratta di ritrovare quello che unisce, per rafforzare il senso di una comunità di destino e la passione per rendere il nostro Paese e il mondo migliori. (cardinale Zuppi, presidente della Cei)

Con questo spirito vogliamo avvicinarci al prossimo, rilevante appuntamento elettorale, consapevoli di partecipare ad uno dei momenti più alti della vita del nostro Paese e della responsabilità non delegabile di difendere e rafforzare la nostra democrazia, come fondamentale garanzia di pace.

«Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi». Il cristiano accoglie il dono della pace che viene da Dio ed è diverso dalla pace del mondo. Il dono di Dio si chiama riconciliazione: con Lui, con se stessi, con il prossimo. La riconciliazione non è solo un processo spirituale, ma diventa sociale e infine politico. Testimoni di riconciliazione, dunque, fino al martirio dell’incomprensione, del rifiuto, del dileggio e del disprezzo.

Il dono di Dio ci rivela che il Dio di Gesù Cristo è un Dio di pace e nessuna guerra, aggressione, violenza, umiliazione, ingiustizia può essere giustificata in nome di Dio. Non si può evocare il nome di Dio e proclamare il suo Vangelo per aggredire, devastare, umiliare e disprezzare non solo un popolo, una religione, una condizione sociale, ma ogni singola persona umana.

Il dono di Dio non è semplicemente assenza di guerra, anche se poter vivere liberi dalla paura di una bomba che cade sulla testa, sulla casa, sulla città, è già gran dono. Il dono di Dio è generativo di un insieme di beni che prendono il nome di salute, accoglienza e cura della vita, conoscenza, libertà, giustizia, ecologia integrale, benessere sociale, integrazione, relazioni generative.

Accogliere il dono di Dio significa mantenere uniti questi beni, riconoscendo a Dio la credibilità che spesso gli neghiamo. Il dono della pace di Dio, non ha confini: la preghiera e l’impegno del cristiano, fino alla testimonianza più esigente e costosa, come quella dei martiri, è per una pace senza confini. Questa è la pace donata da Cristo: una pace senza confini.

*Vescovo di Bergamo

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