Parole coraggiose
a sovranità civile

Dando la laurea honoris causa a Liliana Segre, Bergamo ha confermato di stare dalla parte giusta della storia: senza se e senza ma. Lo aveva già fatto nel 2005, in tempi meno cupi, con la cittadinanza onoraria alla non ancora senatrice a vita, ma la decisione dell’Università acquista una dimensione più significativa per il contesto ambientale e gli strappi di un tempo difficile: la deriva di una certa Italia, che ha costretto ad assegnare la scorta ad una signora di 89 anni, circostanza che pesa sulla coscienza di tutti, almeno di quelli che i conti autocritici con la storia li hanno fatti.

La giornata di ieri ha mostrato l’Italia riconoscente e gentile che vorremmo e che riteniamo sia tuttora maggioritaria. Per cui ha avuto un impatto felice, una sequenza quasi liberatoria, osservare Liliana Segre, per così dire, scortata sotto braccio dal rettore, Remo Morzenti Pellegrini, in un ambiente amichevole fra gli applausi corali nei confronti di una donna che ha fatto dell’impegno a non dimenticare e a non odiare il tratto della propria pedagogia civile. Non odiare ma amare, la trama di un intervento a braccio, misurato nei toni e nel porsi, sorretto dalla passione umana: è stato questo il lascito di una dolorosa biografia iniziata con l’espulsione da scuola e proseguita sul binario 21 della stazione di Milano, destinazione Auschwitz.

Parole coraggiose, a sovranità civile potremmo dire. Appartengono ad un mondo desiderabile, non rovesciato come quello che vediamo. Un racconto che replica al male con il bene, quasi una controstoria rispetto a quel che si legge e si ascolta. Il garbo di Liliana Segre, in questa giornata speciale e in una città che non l’ha mai delusa (parole sue), è stato esigente e non retorico. Perché la cifra, forte ed evidente, della lectio magistralis ha chiamato in causa il senso di responsabilità per tutti, a cominciare da chi occupa un posto di privilegio negli affetti della senatrice: i giovani, i «miei nipoti ideali». Diritti e doveri, responsabilità di scelta: bisogna decidere con chi stare. Lei stessa ha sottolineato, dopo aver taciuto per 45 anni, di non aver fatto il proprio dovere. Ecco, dunque, il concetto guida che ha legato la prolusione del rettore, la laudatio di Franco Giudice e l’intervento di Segre: tre tappe efficaci in successione logica, che si traducono nell’investimento sulle conoscenze degli studenti, perché le usino «come atto politico e di civiltà nei confronti delle relazioni umane» (Morzenti Pellegrini).

La missione dell’Università rientra in questo percorso. Nella stagione degli odiatori seriali, dei discorsi di odio che contagiano persino i vicini di casa, non si può stare a guardare o gettare lo sguardo altrove: non può essere proprio questa la fase del disarmo culturale, della diserzione o del rifugiarsi nell’attendismo della «zona grigia». Il rettore e il professor Giudice sono stati espliciti, insistendo sulle ambiguità di questa trappola: attenzione all’indifferenza, «paralisi dell’anima, anticamera della morte» (Cechov), all’effetto letale dell’indifferenza che cancella l’indignazione. La responsabilità sta nello schierarsi contro l’odio, perché l’indicibile non è ineluttabile. La stessa «banalità del male» matura dal guardare dall’altra parte: la tredicenne di allora trovava attorno a sé «indifferenza e silenzio, solo pochi sceglievano di aiutarci». Le ferite della storia non vanno né dimenticate né edulcorate: è nonna Lilli a ricordarcelo con la sua testimonianza civile, senza senso di vendetta, che rimbalza come un monito di civiltà giuridica. Sarà la responsabilità a salvarci: speranza e richiamo insieme, la lezione di una «donna di pace» che ha colto nel segno.

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